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sabato 3 settembre 2022

Revoca del PdS a seguito di una valutazione di pericolosità sociale: commento a Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 7314 del 19.08.2022

 

Revoca del PdS a seguito di una valutazione di pericolosità sociale: commento a Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza n. 7314 del 19.08.2022


revoca permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo – diniego rilascio permesso di soggiorno ordinario – condanna irrevocabile in materia di stupefacenti – condanna irrevocabile per furto aggravato – condanna non definitiva per lesioni personali aggravate ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle persone – valutazione di pericolosità sociale – art. 9 commi 4 e 7 D.Lgs. 286/98 – art. 1 Legge 1423 del 1956 e s.m.i. – soggetti pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato – durata del soggiorno sul territorio nazionale – inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero – doveroso giudizio di pericolosità sociale – motivazione articolata su più elementi – tutela rafforzata dei soggiornanti di lungo periodo – esclusione di automatismi ostativi – necessità di effettiva ponderazione comparativa tra interesse pubblico ed interesse dello straniero – giudizio di bilanciamento – indici di positiva integrazione: legami familiari, lavoro stabile, reddito adeguato, dimora fissa – specifica valutazione di una minaccia attuale per la sicurezza pubblica – mancata valutazione dei fattori positivi di integrazione – illegittimità


Con la sentenza in commento, il Consiglio di Stato ritorna sul tema della tutela rafforzata dei cittadini stranieri soggiornanti di lungo periodo ai quali la Questura abbia revocato il titolo di soggiorno a seguito di una valutazione di pericolosità sociale, fatta discendere automaticamente dalla sussistenza di condanne, anche non definitive, per reati cd. ostativi come quelli in materia di stupefacenti.

Confermando un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato (ex plurimis, CDS Sez. III, n. 6423/2022; n. 4455/2018; n. 4401/2016; n. 4708/2016), il Consiglio di Stato richiama la stessa littera legis (art. 9 comma 4 Testo Unico Immigrazione) per affermare che “il diniego e la revoca del permesso di soggiorno non possono essere adottati per il solo fatto che lo straniero abbia riportato sentenze penali di condanna; al contrario, tali misure richiedono un giudizio di pericolosità sociale dello straniero e una motivazione articolata su più elementi, che tenga conto anche della durata del soggiorno sul territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dell’interessato, tale da escludere ogni automatismo tra provvedimento sfavorevole e condanne penali (cd. tutela rafforzata dei soggiornanti di lungo periodo). La gravità dei precedenti penali riportati dallo straniero e la prevalenza delle esigenze di sicurezza pubblica, di conseguenza, non possono esentare l’amministrazione dal fondare i propri atti su un motivato e non meramente apparente raffronto con gli elementi favorevoli rappresentati dallo straniero e, quindi, su un’effettiva ponderazione comparativa tra l’interesse pubblico al mantenimento dell’ordine e della sicurezza e l’interesse dello straniero ad integrarsi nel tessuto sociale. Tale giudizio di bilanciamento va operato sulla base di una serie di indici, quali l’esistenza di legami familiari, di un lavoro stabile, di un conseguente adeguato reddito, di una dimora fissa e di tutte le numerose situazioni che possono in vario modo comprovare un effettivo e pacifico radicamento sul territorio italiano in conformità alle regole fondamentali del nostro ordinamento.

Vi è da sottolineare che questo giudizio di bilanciamento in concreto è obbligatorio sia in sede di diniego della prima richiesta di permesso U.E. per soggiornanti di lungo periodo che di revoca di un titolo già posseduto e che la gravità dei reati da cui sia gravato il cittadino straniero non è motivazione (in fatto e in diritto ex art. 3 L. 241/90) in sé sufficiente per affermare la prevalenza dell’interesse pubblico (alla sicurezza) e la speculare soccombenza dell’interesse del privato all’integrazione in Italia.

Sembra, altresì, opportuno osservare che la giurisprudenza in commento non limita l’oggetto dell’istruttoria agli elementi espressamente indicati dalla norma (“durata del soggiorno” – “inserimento sociale, familiare e lavorativo”) ma lo allarga a “tutte le numerose situazioni che possono in vario modo comprovare un effettivo e pacifico radicamento sul territorio italiano in conformità alle regole fondamentali del nostro ordinamento”: a titolo esemplificativo, in presenza di persone con precedenti penali ostativi (che quindi abbiano commesso gravi reati), lo scrutinio amministrativo di meritevolezza del soggiorno dovrebbe comprendere anche l’avere integralmente scontato la pena irrogata, l’avere ottenuto la riabilitazione o l’estinzione del reato, l’avere risarcito la vittima del reato, l’avere positivamente superato la messa alla prova ecc.

Tale interpretazione ampia (ma pur sempre ragionevolmente e motivatamente circoscritta) sembra la più conforme proprio ad una delle “regole fondamentali del nostro ordinamento” e cioè la funzione rieducativa e risocializzante della pena (art. 27 Costituzione), di talché la persona straniera che si sia macchiata di gravi condotte criminose non può essere osservata al microscopio solo per la parte patologica del suo percorso di soggiorno in Italia ma anche per quello positivo di rieducazione, recupero e reinserimento: una diversa lettura, più restrittiva, comporterebbe infatti una (vietata) discriminazione in ragione della nazionalità rispetto all’applicazione di un principio, quello in parola, che deve trovare un’applicazione imparziale e generalizzata.

Di più, il Consiglio di Stato richiede all’Amministrazione una valutazione (istruttoria) e motivazione (della decisione) punto per punto, su ciascuno dei “plurimi fattori”: durata del soggiorno, integrazione sociale, familiare e lavorativa.

Da ultimo, è importante osservare come l’espulsione dal territorio nazionale sia indicata come extrema ratio, praticabile solo laddove non sia nemmeno possibile rilasciare un “diverso permesso di soggiorno” ai sensi del comma 9 dell’art. 9 TUIMM (“Allo straniero, cui sia stato revocato il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e nei cui confronti non debba essere disposta l’espulsione è rilasciato un permesso di soggiorno per altro tipo in applicazione del presente testo unico.”), norma che fa il paio con quella generale di cui all’art. 5 comma 9 dello stesso D.Lgs. 286/98 (“Il permesso di soggiorno è rilasciato, rinnovato o convertito entro sessanta giorni dalla data in cui è stata presentata la domanda, se sussistono i requisiti e le condizioni previsti dal presente testo unico e dal regolamento di attuazione per il permesso di soggiorno richiesto ovvero, in mancanza di questo, per altro tipo di permesso da rilasciare in applicazione del presente testo unico.”).

venerdì 12 agosto 2022

Valutazione del giudizio di pericolosità sociale: l’amministrazione ha il dovere di riesaminare la richiesta alla luce dei nuovi esiti giudiziali Consiglio di Stato Sez. III n. 2371 del 20 aprile 2018

 

Valutazione del giudizio di pericolosità sociale: l’amministrazione ha il dovere di riesaminare la richiesta alla luce dei nuovi esiti giudiziali

Consiglio di Stato Sez. III n. 2371 del 20 aprile 2018

La fattispecie oggetto del presente esame attiene al procedimento incardinato dinanzi al Consiglio di Stato Sez. III per la riforma della sentenza del T.A.R. Lazio n. 225/2017, con cui era stato rigettato il ricorso avverso il provvedimento della Prefettura di Frosinone, che aveva rifiutato la dichiarazione di emersione dal lavoro irregolare e l’istanza di sanatoria, presentata ai sensi dell’art. 5 del D.lgs n. 109/2012.

In punto di fatto

La ricorrente premetteva di aver ricevuto parere negativo della Questura relativamente all’istanza di emersione, in quanto a seguito di accertamenti risultava che l’istante era stata denunciata per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.c. .
Di aver raggiunto un accordo in ordine all’applicazione della pena, in virtù del quale il G.i.p. emetteva sentenza di patteggiamento ad un anno e quattro mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Di aver patteggiato una pena per il reato di cui all’art. 416 c.p., dal quale invece successivamente, in sede di giudizio abbreviato, i coimputati del medesimo procedimento erano stati assolti con formula piena, perché il fatto non sussiste.
Di aver ricevuto, in ogni caso, il rigetto della dichiarazione di emersione dal lavoro irregolare da parte della Prefettura di Roma, in quanto la gravità dei reati contestati sarebbe da ritenersi ostativa al rilascio del permesso di soggiorno.
Avverso il provvedimento di rigetto, la ricorrente proponeva ricorso al TAR eccependo, sotto diversi profili, l’eccesso di potere in cui era incorso l’Ufficio.
Tale vizio si concretizzava nel difetto di motivazione e nella conseguente insussistenza dei presupposti del diniego, tenuto conto che la condanna atteneva al reato di cui all’art. 416 c.p., che non rientra tra quelli ostativi, previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p. .
Osservava la ricorrente che, in ogni caso, la valutazione della Prefettura relativamente alla gravità dei reati contestati, contrastava con la vicenda processuale in cui la stessa era stata coinvolta, in quanto con la citata sentenza di patteggiamento emessa a suo carico era stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, che esclude sostanzialmente una prognosi di pericolosità sociale.

Alla valutazione già positiva operata dall’Autorità Procedente, si aggiungeva l’ulteriore Sentenza di assoluzione nei confronti dei coimputati della ricorrente, in quanto in sede di giudizio abbreviato era stata ritenuta insussistente la contestata associazione a delinquere.
Il T.A.R. del Lazio respingeva, preliminarmente, la domanda di tutela cautelare e fissava udienza per la trattazione del merito del ricorso.
Con Sentenza n. 225/2017, il T.A.R. Lazio, Sezione Prima, Sezione distaccata di Latina, respingeva il ricorso avverso il Decreto con cui era stato disposto il rigetto della dichiarazione di emersione dal lavoro irregolare e dell’istanza di sanatoria, presentata ai sensi dell’art. 5 D.lgs. n. 109/2012, giudicando corretta la valutazione negativa già effettuata dalla Prefettura, in ordine al carattere ostativo della condanna penale pronunciata a carico della ricorrente.

In punto di diritto

Con ricorso al Consiglio di Stato, la ricorrente eccepiva che nelle motivazioni elaborate dal Collegio, fatte proprie dal provvedimento, non era ravvisabile alcun procedimento valutativo-discrezionale relativamente alla posizione personale della ricorrente ed alla rinnovata posizione processuale che la medesima aveva assunto a seguito della successiva Sentenza di assoluzione in favore dei coimputati nel medesimo procedimento penale.
Il Collegio adito si limitava invece a sostenere che la condanna per il reato di cui all’art. 416 giustificherebbe il giudizio di pericolosità sociale e di minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato, tale da precludere – ai sensi dell’art. 5 comma 13 lett. d) del D.lgs. n. 109/2012 – il buon esito della procedura di emersione.

Sulla scorta di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, la ricorrente sosteneva correttamente che l’evoluzione della vicenda processuale nella quale era stata erroneamente coinvolta – considerato l’esito in ordine all’insussistenza dell’associazione – esclude in termini di logica e di diritto ogni effetto penale e destituisce di fondamento ogni giudizio di pericolosità sociale e di minaccia per l’ordine pubblico.
In assenza, quindi, di una valutazione di pericolosità sociale ed in assenza di alcun fatto di reato non era ragionevolmente ammissibile un automatico giudizio negativo di carattere amministrativo, vista la possibilità fornita dall’ordinamento di superare la presunzione insita nella normativa in questione.
Non essendo più ravvisabile nel processo penale, appariva correttamente illogico ed irragionevole ravvisare una prognosi di pericolosità sociale e di minaccia per l’ordine pubblico in capo alla ricorrente nel procedimento amministrativo.

Il Consiglio di Stato in S.G., dopo aver disposto in sede cautelare la sospensione dell’esecutività della Sentenza del TAR, ha accolto le suesposte argomentazioni.
Ha infatti ravvisato la manifesta ed incontroversa inconciliabilità della “sentenza di patteggiamento per la quale la ricorrente è stata condannata per il delitto di partecipazione ad un’associazione a delinquere finalizzata alla consumazione di reati contro il patrimonio (.) con quanto statuito in sede di giudizio abbreviato con sentenza del GUP di Roma n. 646/2014 che ha ritenuto insussistente l’associazione criminale contestata (anche) all’odierna appellante (.)”.

Sul presupposto, quindi, secondo il quale l’esito del Giudizio Penale pone in discussione il giudizio formulato dall’Amministrazione dovendosi, nella concreta valutazione della pericolosità sociale della ricorrente, tenere conto dell’insussistenza fattuale della contestata associazione per delinquere, il Consiglio di Stato in accoglimento del proposto appello ha ordinato all’Amministrazione di “riesaminare la richiesta respinta alla luce dell’esito giudiziale sopra indicato”.

Diritto al titolo di viaggio quando il Paese di origine non risponde rendendo impossibile il conseguimento Consiglio di Stato, sentenza n. 5947 del 13 luglio 2022

 

Diritto al titolo di viaggio quando il Paese di origine non risponde rendendo impossibile il conseguimento

Consiglio di Stato, sentenza n. 5947 del 13 luglio 2022

Per il Consiglio di Stato Sezione Terza Sentenza n. 5947 del 2022 il titolo di viaggio allo straniero spetta anche quando gli apparati burocratici del paese di appartenenza rendono impossibile, rimanendo silenti, il conseguimento del documento richiesto.

La sentenza del Consiglio di Stato interviene nell’ambito di un procedimento promosso da un cittadino straniero titolare dello status di protezione umanitaria che si era visto negare il titolo di viaggio dalla Questura di Trento.

L’Amministrazione aveva addotto a motivo del diniego la circostanza che lo straniero non avesse “provato di essere nell’impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del suo paese” come richiesto dalla circolare del Ministero degli Affari Esteri n.48 del 31 ottobre 1961. Secondo motivo a supporto del diniego era costituito dalla considerazione che lo straniero era gravato da due precedenti penali irrevocabili per resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cp) e lesioni personali (art. 582 c.p.).

L’appellante riteneva che la prova di essere nell’impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del suo Paese d’origine, richiesta dalla circolare menzionata del 1961 del MAE, non potesse trovare più giustificazione, posto che le categorie alle quali è riconosciuto ora il titolo di viaggio non sono più le «persone cui le Autorità Italiane riterranno opportuno rilasciare il detto titolo», ma sono espressamente coloro i quali sono titolari dello status di protezione sussidiaria (derivante da fonte di rango europeo direttiva n. 2004/83/CE e costituzionale art. 10 e 11 Cost.) e coloro che sono titolari di status di protezione umanitaria (derivante da fonte di rango costituzionale art. 10 Cost.), di conseguenza tale prova rigorosa non sarebbe più prevista, tanto che l’art. 24 del D. Lgs. 251/2007 (applicabile ex art. 12 preleggi e Circolare del Ministero dell’Interno n. 300 del 24 Febbraio 2003 anche ai titolari di protezione umanitaria) prevede quale requisito per il rilascio del provvedimento anelato solo «fondate ragioni che non consentono al titolare dello status di protezione sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza».

Allegava, inoltre, lo straniero di essersi attivato nel seguente modo per l’ottenimento del passaporto presso l’autorità diplomatica del proprio Paese d’origine:

aveva chiesto dapprima per iscritto richiesto un appuntamento; non ottenendo alcuna risposta, si era recato di persona, accompagnato da una amica (indicata come testimone), presso gli uffici dell’autorità diplomatica in Italia del proprio Paese d’origine per chiedere il rilascio del passaporto, in quest’occasione ricevendo un diniego orale. Infine, a mezzo del proprio legale, aveva reiterato via fax la richiesta di rilascio del passaporto all’ Ambasciata, avvisando che, in caso di silenzio serbato per oltre 5 gg, si sarebbe considerato tale contegno come equivalente ad un diniego tacito di rilascio del documento anelato.

Con riferimento al secondo motivo di diniego l’appellante riteneva che il diniego dell’amministrazione fosse arbitrario, posto che si limitava a richiamare i titoli di reati, fra l’altro fattispecie per le quali non era previsto neppure l’arresto obbligatorio in flagranza di cui all’art. 380 cpp, senza indicare quale fosse il pericolo concreto per la sicurezza dello Stato o per l’ordine e la sicurezza pubblica, cause di esclusione dello status di protezione sussidiaria ex art. 16 d. lgs. 251/2007, applicabile analogicamente anche al titolo di viaggio.

La Sentenza del Consiglio di Stato ha accolto le ragioni dell’appellante, ritenendo che la impossibilità di avere contatti con il proprio paese di origine al fine di ottenere il titolo di viaggio non può essere intesa nel solo senso di ricomprendervi quei casi in cui il contatto o il rientro dello straniero nel proprio paese d’origine lo esporrebbe a gravi rischi per la propria incolumità, ma deve essere esteso a tutte quelle circostanze in cui gli apparati burocratici del paese di appartenenza rendono impossibile al cittadino di conseguire il documento richiesto.

Nello stesso senso vi erano i seguenti precedenti della giurisprudenza amministrativa di prime cure, che avevano ritenuto sufficiente ad integrare il requisito per il rilascio del titolo di viaggio per titolari di protezione sussidiaria o umanitaria la mancanza di volontà, da parte del richiedente, di entrare in contatto con le autorità diplomatiche del proprio Paese (T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 26/01/2016, n. 1141; T.A.R. Puglia Lecce Sez. III, Sent., 30/12/2016, n. 202 relativamente al caso di una cittadina eritrea con protezione sussidiaria che si era limitata a dichiarare di non volere entrare in contatto con le autorità diplomatiche del suo Paese (peraltro, precisando: “di non poter recarsi presso la sua Ambasciata perché essendo militare potrebbero arrestarla”), tuttavia le ragioni di tale atteggiamento possono facilmente ricavarsi e considerarsi implicite nelle motivazioni del rilascio in suo favore della “protezione sussidiaria»; T.A.R. Lazio Roma Sez. II quater, Sent., 30/09/2015, n. 11465 relativamente al caso specifico della protezione umanitaria).

Inoltre, con riferimento al secondo motivo la sentenza afferma che l’art. 24 comma 3 del d. lgs. n.251/2007, riguardante lo status di protezione sussidiaria, ma disciplina applicabile anche ai titoli di viaggio, permette di sostenere che il titolo di viaggio per stranieri è rilasciato purché non vi ostino imperiosi motivi di sicurezza nazionale “o” di ordine pubblico, mentre non basta fare riferimento automaticamente alla mera sussistenza di precedenti penali.

Le Massime

la rigorosa condizione per il rilascio del titolo di viaggio dell’aver lo straniero dimostrato di essere nell’impossibilità di ottenere un passaporto dalle autorità del suo paese prevista dalla circolare del Ministero degli affari esteri n. 48 del 31 ottobre 1961, richiamata dalla circolare del Ministero dell’interno n. 300 del 24 febbraio 2003, non pare trovi più giustificazione, posto che le categorie alle quali è riconosciuto ora il titolo di viaggio non sono più le «persone cui le Autorità Italiane riterranno opportuno rilasciare il detto titolo», ma sono espressamente coloro i quali sono titolari dello status di protezione sussidiaria (come si desume da direttiva n. 2004/83/CE e art. 10 e 11 Cost.) e coloro che sono titolari di status di protezione umanitaria (tutelati ex art. 10 Cost.), di conseguenza tale prova rigorosa non è più prevista, infatti l’art. 24 del D. Lgs. 251/2007 prevede solo «fondate ragioni che non consentono al titolare N. 09122/ 2017 REG.RI C. dello status di protezione sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza». In particolare, la impossibilità di avere contatti con il proprio paese non può essere intesa nel solo senso di ricomprendervi quei casi in cui il contatto o il rientro dello straniero nel proprio paese d’origine lo esporrebbe a gravi rischi per la propria incolumità ma deve essere ritenuto elemento rilevante in fatto in tutte quelle circostanze in cui gli apparati burocratici del paese di appartenenza rendono impossibile al cittadino di conseguire il documento richiesto“;

una interpretazione comunitariamente orientata dell’art. 24, comma 3, del d. lgs. n.251/2007 ed attuativa dell’art.25 della direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/83/CE permette di sostenere che il titolo di viaggio per stranieri è rilasciato purché non vi ostino imperiosi motivi di sicurezza nazionale “o” di ordine pubblico e, coerentemente, anche la lettura del richiamato art. 24, comma 3, che, pur si riferisce, testualmente, alla sussistenza di gravissimi motivi attinenti alla sicurezza nazionale “e” all’ordine pubblico, non può che essere nel senso della sussistenza, in alternativa, di tali motivi al fine di rifiutare il titolo di viaggio. La valutazione, connotata da ampia discrezionalità, del Questore, circa la sussistenza di ragioni di ordine pubblico per negare il titolo di viaggio, non può tuttavia trasformarsi in una statuizione arbitraria, una mera petizione di principio. Il solo riferimento alle sentenze di condanna per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni personali, senza alcuna valutazione in merito alla gravità dei reati, al pericolo di reiterazione degli stessi, al grave turbamento dell’ordine pubblico che da essi deriverebbero nonché alla condotta successivamente tenuta dal ricorrente, non consentono di ritenere positivamente accertata la sussistenza dei gravissimi motivi attinenti all’ordine pubblico, come pure testualmente richiesto dall’art. 24, comma 3, d. lgs 251/2007”.

Diniego del rinnovo del PdS per carenza di reddito: commento a Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6935 del 05.08.2022

 

Diniego del rinnovo del PdS per carenza di reddito: commento a Consiglio di Stato, Sez. III, n. 6935 del 05.08.2022


© ggB

rinnovo pds – requisiti reddituali – riferimento assegno sociale non rigido – ammissibile scostamento non significativo – altre fonti lecite – (assistenza sociale territoriale, percorsi di integrazione lavorativa promossi da enti pubblici territoriali, aiuti da associazioni del terzo settore, supporto delle comunità stabili di connazionali) – circostanze sopravvenute – rilevano ai fini del riesame – reddito maturato successivamente all’adozione del provvedimento impugnato – superamento giurisprudenza amministrativa in tema di immigrazione che ritiene irrilevanti le sopravvenienze – sindacato di legittimità su diritti fondamentali della persona umana – giudizio non meramente impugnatorio sull’atto ma sul rapporto – superamento valutazione di tipo statico, ancorata al provvedimento impugnato – valutazione di tipo dinamico – rilevano età e concreta capacità lavorativa – doverosa rivalutazione posizione giuridica del lavoratore straniero



Con la sentenza in commento il Consiglio di Stato affronta il tema dei requisiti reddituali necessari per il rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione / lavoro subordinato, con particolare riferimento al “possesso di un reddito minimo corrispondente all’assegno sociale” ma finisce per lumeggiare, con argomentazioni in diritto condivisibili, alcuni istituti di diritto amministrativo sostanziale e processuale: il principio tempus regit actum, la rilevanza dei fatti sopravvenuti dopo l’adozione del provvedimento amministrativo ed il tipo di giudizio (non meramente impugnatorio) del G.A. a fronte di diritti fondamentali della persona umana.

La vicenda

Un cittadino senegalese, regolarmente soggiornante in Italia da alcuni lustri, chiede alla Questura territorialmente competente il rinnovo del permesso di soggiorno per attesa occupazione / lavoro subordinato, potendo dimostrare di avere maturato, per l’anno di riferimento (2017) un reddito pari ad € 1.695,00, obiettivamente insufficiente rispetto al parametro, pur elastico, dell’importo dell’assegno sociale, che per quell’anno era pari ad € 5.824,91 (€ 448,07 mensili, per tredici mensilità).

La Questura diniega il rinnovo per carenza del requisito minimo di cui all’art. 29, comma 3 D.Lgs. 286/98 (Testo Unico Immigrazione).

Adito il sede gerarchica, il Prefetto conferma la decisione questorile negativa.

A questo punto, il lavoratore ricorre al TAR dell’Emilia-Romagna, sede di Bologna, lamentando la violazione degli artt. 2 (diritti fondamentali della persona umana – convenzione OIL), 5 comma 5 (elementi sopraggiunti), 22 comma 11 (perdita del posto di lavoro e condizioni per il mantenimento del permesso di soggiorno), 29 comma 3 (riferimento all’importo annuo dell’assegno sociale) TUIMM e art. 3 legge 241/90 (istruttoria e motivazione del provvedimento amministrativo).

Il Tribunale Amministrativo Regionale, con sentenza in forma semplificata ex art. 60 C.P.A. n. 883/2019, conferma il decreto gerarchico prefettizio affermando che il rigetto è correttamente motivato in ordine alla carenza del minimo requisito reddituale e che la documentazione presentata dopo l’adozione del provvedimento amministrativo, relativa ai redditi maturati nel 2018 e pari ad € 4.797,91, non è rilevante e non è cumulabile con quello maturato nel 2017.

La sentenza del Consiglio di Stato

Avverso la sentenza breve pronunciata dal TAR viene proposto appello, riproducendo le medesime censure e valorizzando la prospettiva reddituale futura (provata dal reddito conseguito nel 2018 in progressione rispetto all’anno precedente), le condizioni soggettive del lavoratore ed in particolare il suo lungo soggiorno in Italia e l’età (70 anni).

Il Consiglio di Stato respingeva la domanda cautelare di sospensione dei provvedimenti gravati, sia con decreto monocratico che con ordinanza collegiale e fissava per il merito la pubblica udienza del 16 giugno 2022.

Con la sentenza in commento, pubblicata il 5 agosto 2022, il Consiglio di Stato, definitivamente pronunciando sull’appello, lo accoglie parzialmente, motivando sui seguenti profili:

  • ribadisce l’orientamento della stessa III Sezione (sentenza 18 ottobre 2016, n. 4352) secondo il quale il riferimento all’importo dell’assegno sociale (che la legge prevede espressamente solo per il permesso di soggiorno CE e per il ricongiungimento familiare) quale reddito minimo sufficiente rappresenta solo un “criterio orientativo di valutazione e non un parametro rigido la cui mancanza sia automaticamente ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, dovendosi tener conto delle varie circostanze che di fatto concorrono a consentire il sostentamento dell’immigrato”;
  • per il rinnovo del titolo di soggiorno è dunque accettabile uno “scostamento non significativo dalla soglia pari all’ammontare dell’assegno sociale”;
  • devono essere valutate, oltre al reddito da lavoro prodotto, altre circostanze, quali a titolo esemplificativo, il ricorso all’assistenza sociale del territorio, l’aiuto ricevuto da associazioni del Terzo Settore o il supporto fornito dalle comunità stabili di connazionali;
  • in base al principio tempus regit actum la legittimità del provvedimento impugnato non è scalfita dalla sopravvenienza di nuovi elementi, successivi all’adozione dell’atto amministrativo;
  • le sopravvenienze (nel caso che ci occupa, i redditi dell’anno successivo rispetto a quello preso a riferimento per il rinnovo del titolo di soggiorno) sono tradizionalmente considerate irrilevanti dalla giurisprudenza amministrativa in materia di immigrazione e tale considerazione discende dalla qualificazione del giudizio amministrativo come rimedio meramente impugnatorio;
  • in una prospettiva nuova e conforme al codice del processo amministrativo e alla successiva giurisprudenza sovranazionale e interna, quando il giudizio involga diritti fondamentali della persona umana (da porre in bilanciamento con i valori essenziali della sicurezza e della sostenibilità dei flussi migratori), esso non deve avere come baricentro l’atto, bensì il rapporto e deve tendere allo scrutinio della fondatezza della “pretesa sostanziale azionata” (Adunanza Plenaria, 2011 n. 3);
  • il giudice amministrativo non è (più) chiamato ad una valutazione di tipo statico ma deve invece operare una valutazione di tipo dinamico al fine di evitare il concretizzarsi di un pregiudizio per la situazione giuridica sostanziale;
  • in conclusione, l’Amministrazione deve tenere conto anche delle circostanze sopravvenute (nella fattispecie, il reddito maturato dallo straniero nel periodo successivo all’adozione del provvedimento impugnato) e di quelle rilevanti nel singolo caso (nella fattispecie, avanzata età anagrafica del cittadino straniero e connessi limitazioni alla sua attitudine al lavoro) e nel caso di specie deve rivalutare positivamente la posizione giuridica del ricorrente.

Il riferimento elastico all’importo dell’assegno sociale

Sul punto, la sentenza in commento conferma la giurisprudenza maggioritaria, giusta la quale, al di là delle due ipotesi espressamente previste dalla legge (art. 29 TUIMM, ricongiungimento familiare – art. 9 TUIMM permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, già carta di soggiorno) il parametro dell’importo annuo dell’assegno sociale costituisce un punto di riferimento non rigido ma elastico per la verifica della sufficienza reddituale e quindi nessun automatismo in malam partem è ammissibile laddove si sia in presenza di uno “scostamento non significativo” e di altre circostanze suscettibili di deporre oggettivamente per la sussistenza di altre lecite fonti di sostentamento.

Simile postulato, del tutto condivisibile, non sembra porsi in alcun modo in conflitto con il consolidato orientamento giurisprudenziale, conforme al disposto dell’art. 5, comma 5, del D.Lvo n. 286/1998, per il quale il possesso di un reddito minimo idoneo al sostentamento dello straniero costituisce condizione soggettiva non eludibile ai fini del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno, perché attiene alla sostenibilità dell’ingresso dello straniero nella comunità nazionale, mentre l’insussistenza del requisito in esame integra motivo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno (C.d.S., sez. III, 09/04/2014, n. 1687: “Il requisito reddituale è finalizzato ad evitare l’inserimento nella comunità nazionale di soggetti che non siano in grado di offrire un’adeguata contropartita in termini di lavoro e quindi di formazione del prodotto nazionale e partecipazione fiscale alla spesa pubblica… e la dimostrazione di un reddito di lavoro, o di altra fonte lecita di sostentamento, è garanzia che il cittadino extracomunitario non si dedichi ad attività illecite o criminose.

Piuttosto, l’orientamento espresso dalla sentenza in commento valorizza un uso dinamico, adattivo e più efficiente del potere discrezionale dell’Amministrazione che, rifuggendo gli automatismi, consenta di riconoscere, anche in chiave deflattiva del contenzioso, un principio di favor per la regolarità del soggiorno, evitando di spingere in zone d’ombra (giuridiche ed esistenziali) le persone di origine straniera.

Il principio tempus regit actum ed i fatti sopravvenuti

La sentenza in commento, sul punto, consente di allargare l’asfittico recinto in cui l’esercizio del potere amministrativo rischia di essere rinchiuso in ossequio ad una applicazione rigida ed incondizionata di detto principio: se rimane formalmente intatta l’invalicabilità della soglia per la valutazione di legittimità del provvedimento impugnato, individuata nel momento (e nel bagaglio istruttorio accumulato) dell’adozione dell’atto, sembra aprirsi con maggiore nettezza, rispetto alla giurisprudenza maturata sino ad oggi, la possibilità di varcare quella soglia in sede processuale, superando le strettoie del giudizio meramente impugnatorio e abbracciando la teoria del giudizio (non più o non solo sull’atto ma) sul rapporto, per offrire al cittadino una tutela sostanziale della propria posizione giuridica soggettiva, allargando fin dove possibile il confine del paradigma costituzionale (artt. 103 e 113).

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