Note a margine dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 30402/21. La recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto per cui «ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 comma 6 D.Lgs. 286/98, l’esercizio della prostituzione, se sorretto da necessità economiche, integra una condizione soggettiva di vulnerabilità anche ove non si possa attribuire alla richiedente la qualifica di vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale», con ciò confermando un orientamento volto a valorizzare la vulnerabilità emergente dall’esercizio della prostituzione, indipendentemente dall’identificazione della persona quale vittima di tratta. Resta aperta la questione relativa ai confini ravvisati dalla giurisprudenza per il riconoscimento della protezione internazionale.
Se dunque sembra sempre più consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione volto alla valorizzazione dell’elemento della vulnerabilità per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria – ed in prospettiva eventualmente, con le relative distinzioni, alla protezione speciale – in favore delle giovani donne che si presumono essere vittime di tratta, resta aperta la questione relativa al confine oltre il quale sia possibile innalzare la protezione, in particolare accertando il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.
Com’è noto, la giurisprudenza oramai è piuttosto pacifica nell’includere nello status di rifugiato le vittime di tratta, ove ricorrano tutti i presupposti previsti dalla Convenzione di Ginevra del 195117.
Se tuttavia la forma massima di protezione è senza dubbio riconosciuta ove vi sia una chiara identificazione della persona quale vittima di tratta ed in particolare dove vi sia la c.d. “auto-identificazione”18, ossia nei casi in cui la persona ricorrente dichiari espressamente la propria condizione e dunque espliciti il fondato timore di persecuzione, maggiormente problematico è il caso in cui non vi sia una chiara allegazione della vicenda di tratta o questa sia parziale ma emergano degli indicatori o comunque elementi da cui è possibile ritenere possibile che la persona sia una vittima di tratta o sia a rischio di divenirlo.
Si tratta di una linea di confine di difficile demarcazione proprio per le caratteristiche connaturate al fenomeno della tratta, non soltanto con riferimento all’esperienza passata della persona che ne è stata vittima, ma anche in un’ottica di valutazione prognostica relativamente al timore di persecuzione a cui è esposta la persona stessa in virtù di circostanze oggettive19, talvolta peraltro scarsamente percepite dalla vittima stessa ma al contempo oggetto di riscontri grazie alle informazioni sui paesi di origine (COI) ed ai numerosi documenti sul tema e sull’esposizione ai rischi – in particolare il rischio di re-trafficking – a cui sono esposte le persone che ne sono vittime.
Nell’ordinanza n. 1750/21 della seconda sezione della Corte di Cassazione si legge un passaggio molto importante: «il mancato riconoscimento di essere vittima di tratta, a fronte della ricorrenza di numerosi indici di tratta e sfruttamento sessuale o lavorativo, non esprime un fatto decisivo e prevalente sugli indici ravvisati, potendo essere compatibile, come evidenziato dalle stesse Linee Guida utilizzate per valutare tali dichiarazioni, con la sussistenza degli altri indici ed essere sintomo del timore di ritorsioni ovvero di una non piena consapevolezza della propria situazione personale». La Corte contesta al Giudice di merito di aver ritenuto “imprescindibile” l’esplicita ammissione da parte della richiedente asilo di essere vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, con ciò dunque ritenendo possibile una valutazione che vada oltre il timore di persecuzione espresso.
Sulla base di tali considerazioni sembrerebbe a chi scrive legittimo e non contrario al principio dispositivo il riconoscimento della protezione internazionale per il rischio di persecuzione legato all’esperienza di tratta emersa seppur non dichiarata o dichiarata parzialmente. E ciò in quanto l’onere di allegazione gravante sulla parte può ritenersi ottemperato ogni qualvolta, come è nella maggior parte dei casi, la persona porti nel proprio racconto elementi che contribuiscono alla ricostruzione del vissuto o comunque chiaramente sintomatici del fenomeno tratta (il rito magico, le modalità di reclutamento, lo svolgimento e l’organizzazione del viaggio). L’elemento oggettivo del timore è chiaramente enucleabile dalle informazioni che oramai sono abbondantemente disponibili sul fenomeno e sulle condizioni esistenti a riguardo nel paese di origine del richiedente.
Resta inteso che ciascuna situazione individuale è differente e che comunque l’analisi della Commissione Territoriale e del giudice della sezione specializzata dovrà essere condotta caso per caso.
Dove poi gli elementi a disposizione dell’autorità amministrativa o del magistrato non siano sufficienti per il riconoscimento di una forma di protezione internazionale, si apre un’altra questione afferente le forme di protezione nazionali accordabili in tali fattispecie: nel caso in cui non si possa riconoscere la protezione internazionale, infatti, dovrebbe valutarsi l’applicabilità dell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 25/08, strumento di tutela specifico per le persone vittime dei delitti di cui all’art. 600 e 601 c.p.
Tale norma, introdotta dall’art. 10 co. 3 del D.Lgs. 24/14 – in attuazione della direttiva sulla tratta 2011/36/UE – è volta proprio a creare quel rinvio tra il sistema della protezione internazionale e quello della protezione delle vittime di tratta e grave sfruttamento di cui all’art. 18 D.Lgs. 286/98, che si è reso necessario proprio in virtù della duplice protezione a cui possono accedere le persone vittime di tali fattispecie di reato.
Sebbene la formulazione della norma sia di non chiara interpretazione, riferendosi genericamente ad un rinvio da parte della Commissione Territoriale al questore «per le valutazione di competenza», è pacifico che, nell’ambito delle attività di spettanza del questore, vi sia quella di valutare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno, nello specifico quello per casi speciali disciplinato dall’art. 18 D.Lgs. 286/98.
Un’interpretazione di questo tipo – che peraltro pare rispondente ad una lettura sistematica della norma, collocata nell’art. 32 del decreto D.Lgs. 25/08, che elenca le diverse possibili decisioni della Commissione e dunque i diversi titoli di soggiorno che possono essere riconosciuti al richiedente – è stata effettivamente adottata dalle stesse Linee Guida della Commissione Nazionale e UNHCR20 che hanno chiarito che la trasmissione degli atti da parte della Commissione Territoriale al questore è finalizzata a consentire a quest’ultimo di valutare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 18 D. Lgs. 286/98.
Tale norma sembra rispondere ai principi introdotti nelle disposizioni sovranazionali in materia di tratta tra cui la direttiva 2011/36/UE che impone agli Stati di disporre di strumenti di tutela in una fase particolarmente precoce rispetto al formale accertamento di una situazione di tratta, chiedendo, all’art. 11 par. 2, che si fornisca assistenza e sostegno non appena le autorità competenti abbiano «un ragionevole motivo di ritenere che» la persona sia una vittima di tratta.
Conseguentemente lo stesso meccanismo della protezione sociale, nato intorno all’art. 18 DLgs. 286/98, è stato costruito mediante la predisposizione di una serie di misure di tutela in successione, che partono da una fase particolarmente precoce e antecedente alla formale identificazione della vittima, dunque delle misure transitorie (quelle di cui all’art. 13 della L. 228/03) da riconoscersi in fase di «identificazione preliminare» e delle misure definitive, volte alla prosecuzione dell’assistenza e accompagnamento all’integrazione sociale (art. 18 comma 3bis D.Lgs. 286/98 così come modificato dal D.Lgs. 24/14).
Ebbene, la formulazione contenuta nell’art. 32 comma 3bis D.Lgs. 286/98, nella parte in cui ricalca l’art. 11 par. 2 della Direttiva 2011/36/UE e dunque fa riferimento ai «ragionevoli motivi per ritenere che la persona sia vittima di tratta» permette di ritenere la norma applicabile nel caso di una “presunzione” di tratta e dunque in situazioni in cui gli elementi per una sicura qualificazione del richiedente come vittima di tratta appaiano insufficienti.
Sebbene l’ambito applicativo di tale norma risulti ad oggi ancora piuttosto limitato, tanto nella fase amministrativa quanto in sede giurisdizionale, si registrano pronunce interessanti sul tema che, effettivamente, hanno ritenuto di invocare l’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98 in situazioni in cui, stante la mancata allegazione della tratta, si poneva un problema di chiara identificazione21.
La stessa ordinanza della Corte di Cassazione n. 1750/21, qui più volte richiamata, nell’enunciazione del principio di diritto, ha espressamente fatto riferimento alle situazioni in cui emergano gli indicatori delle Linee Guida UNHCR tali da ritenere «sussistenti i presupposti per la segnalazione ai sensi dell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98», non andando tuttavia oltre, verso il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno ex art. 18 o comunque verso l’opportunità di una valutazione da parte del Questore del diritto al rilascio dello specifico permesso di soggiorno.
La differenza non pare di poco conto essendo la norma contenuta nell’art. 18 lo strumento dedicato alla specifica protezione delle vittime di tali reati in virtù della previsione di un programma di assistenza e integrazione sociale di cui le vittime stesse possono beneficiare.
La norma contenuta nell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98, ove correttamente utilizzata, potrebbe peraltro costituire strumento di tutela per tutte quelle fattispecie in cui, pur sussistendo tutti gli elementi per la riconducibilità della fattispecie ai delitti di cui agli artt. 600 e 601 del codice penale, non sia possibile addivenire al riconoscimento dello status di rifugiato per la mancanza di alcuni degli elementi della Convenzione di Ginevra.
Si pensi, per esempio, alle situazioni di richiedenti asilo vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo o anche di riduzione in schiavitù sempre in ambito lavorativo, qualora da tali situazioni non scaturiscano rischi in caso di rientro nel paese di origine. Sotto tale profilo l’applicazione della norma, unitamente ad un’auspicabile maggiore sensibilizzazione verso tali forme di tratta di tutti i soggetti interessati, ivi compresa la magistratura, potrebbe condurre ad un innalzamento del livello di protezione in favore di una sempre più ampia compagine di persone.
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