domenica 21 dicembre 2025

Protezione complementare, diritto d’asilo costituzionale e tutela della vita privata e familiare dopo il d.l. 20/2023: note a margine di un decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024)

 TEMA

Protezione complementare, diritto d’asilo costituzionale e tutela della vita privata e familiare dopo il d.l. 20/2023: note a margine di un decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024)


Abstract
Il contributo analizza un recente decreto del Tribunale di Bologna, emesso il 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024), che riconosce il diritto al permesso di soggiorno per protezione speciale ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 286/1998. La decisione si colloca nel dibattito aperto dalle modifiche introdotte dal decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20, convertito dalla legge 5 maggio 2023, numero 50, e offre una ricostruzione sistematica della protezione complementare quale espressione del diritto d’asilo costituzionalmente garantito. Particolare attenzione è dedicata al ruolo della vita privata e familiare, alla funzione del giudizio comparativo e al rapporto tra obblighi costituzionali e fonti convenzionali, alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.


1. Inquadramento normativo della protezione complementare dopo il 2023

La riforma del 2023 ha inciso profondamente sull’assetto dell’art. 19 del Testo Unico Immigrazione, abrogando i periodi che, nella formulazione introdotta nel 2020, tipizzavano espressamente i criteri relativi alla vita privata e familiare. Ciò ha alimentato, nella prassi amministrativa, l’idea di un ridimensionamento della protezione speciale, ridotta a clausola residuale di non-refoulement in senso stretto.

Il decreto in commento prende posizione in modo netto contro tale impostazione, ricostruendo la disciplina vigente come un ritorno, sul piano sistematico, al quadro anteriore al 2020, nel quale la protezione umanitaria – oggi protezione complementare – trovava fondamento diretto negli obblighi costituzionali e internazionali richiamati dall’art. 5, comma 6, e dall’art. 19 del d.lgs. 286/1998. La soppressione di singoli indici normativi non comporta, secondo il Tribunale, l’eliminazione del diritto sostanziale alla tutela, che continua a operare quale limite invalicabile ai provvedimenti di allontanamento.


2. Protezione complementare e diritto d’asilo costituzionale

Uno degli aspetti di maggiore interesse del decreto è il collegamento esplicito tra protezione complementare e diritto d’asilo di cui all’art. 10, terzo comma, della Costituzione. Il Tribunale chiarisce che la protezione speciale non rappresenta una concessione discrezionale dell’amministrazione, bensì una forma di attuazione del diritto d’asilo in senso costituzionale, inteso come diritto fondamentale a uno standard minimo di dignità della vita.

In questa prospettiva, la protezione complementare assume una portata più ampia rispetto agli obblighi minimi derivanti dal diritto dell’Unione europea o dalla sola Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il richiamo agli obblighi costituzionali consente all’ordinamento interno di assicurare un livello di tutela rafforzato, non comprimibile attraverso interpretazioni restrittive fondate esclusivamente su parametri sovranazionali più limitativi.


3. Vita privata e familiare come parametro centrale di tutela

Il decreto dedica un’ampia parte della motivazione alla tutela della vita privata e familiare, richiamando l’art. 8 CEDU e il suo radicamento negli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione. La vita privata non viene intesa in senso statico o meramente familiare, ma come insieme delle relazioni sociali, lavorative e affettive attraverso cui la persona sviluppa la propria identità.

Il Tribunale sottolinea come l’integrazione non possa essere ridotta al solo dato occupazionale, pur rilevante, ma debba essere valutata nella sua dimensione complessiva e concreta. L’allontanamento forzato di uno straniero che abbia radicato in Italia la propria vita privata comporta un rischio di vulnerabilità qualificata, suscettibile di integrare una lesione dei diritti fondamentali, anche in assenza di persecuzioni o trattamenti inumani nel Paese di origine.


4. Il giudizio comparativo e il principio di proporzionalità

Elemento cardine della decisione è il giudizio comparativo tra la situazione nel Paese di origine e il percorso di integrazione realizzato in Italia. Il Tribunale si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità che richiede una valutazione caso per caso, fondata su elementi concreti e attuali, e orientata al bilanciamento tra l’interesse pubblico all’allontanamento e la tutela dei diritti fondamentali della persona.

In linea con gli arresti più recenti della Corte di cassazione, viene ribadito che non è necessario un percorso di integrazione “compiuto” o definitivo: è sufficiente che emergano segni univoci e seri di un radicamento effettivo, tali da rendere sproporzionato l’allontanamento. La comparazione attenuata diviene così lo strumento attraverso cui il giudice verifica se il rimpatrio determinerebbe un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e familiare, tale da incidere sul nucleo essenziale della dignità umana.


5. Ricadute sistematiche e prospettive applicative

Il decreto del Tribunale di Bologna offre un contributo di particolare rilevanza per la prassi giudiziaria e amministrativa. Esso chiarisce che la riforma del 2023 non ha svuotato di contenuto la protezione complementare, ma ha riaffidato alla giurisprudenza il compito di ricostruirne i parametri alla luce dei principi costituzionali e convenzionali.

Ne deriva un modello di protezione non automatica, ma rigorosa, nel quale l’integrazione sociale assume valore giuridico pieno e la vita privata e familiare diviene il fulcro del bilanciamento. In un contesto segnato da tensioni tra esigenze di controllo dei flussi migratori e tutela dei diritti fondamentali, la decisione in esame riafferma il ruolo del giudice quale garante ultimo della dignità della persona straniera.


Riferimento alla pubblicazione
Il testo integrale del decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024) è consultabile nella versione pubblicata su Calameo al seguente indirizzo:
https://www.calameo.com/books/0080797751346a938fdea


Avv. Fabio Loscerbo

giovedì 18 dicembre 2025

La protezione complementare tra tipizzazione normativa e valutazione giudiziale del caso concreto



La protezione complementare tra tipizzazione normativa e valutazione giudiziale del caso concreto

La ricostruzione secondo cui l’eliminazione del permesso per motivi umanitari prima, e la successiva rimodulazione del permesso per protezione speciale poi, avrebbero determinato una restrizione dell’area di tutela riconducibile al diritto di asilo non è condivisibile sotto il profilo sistematico. Tale impostazione muove da una lettura meramente nominalistica delle categorie di soggiorno, confondendo il piano delle figure amministrative tipizzate con quello, ben più ampio e sovraordinato, della protezione complementare quale forma di attuazione del diritto di asilo costituzionale e convenzionale.

Occorre, al contrario, distinguere nettamente tra il genus della protezione complementare e le species che, nel tempo, il legislatore ordinario ha introdotto per darvi attuazione. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, prima, e il permesso per protezione speciale, poi, non hanno mai esaurito il contenuto del diritto di asilo, ma ne hanno rappresentato esclusivamente modalità contingenti di concretizzazione amministrativa.

In questa prospettiva, l’intervento normativo non va letto in termini di progressiva “chiusura” del sistema, bensì come un mutamento della tecnica di regolazione: dal tentativo di tipizzare le ipotesi di tutela a una progressiva destipizzazione, che ha avuto come effetto – anche se non sempre dichiarato – quello di restituire centralità alla valutazione giudiziale del caso concreto.

La fase della tipizzazione: l’art. 19 TUI nella formulazione post-2020

La formulazione dell’art. 19 del d.lgs. 286/1998 introdotta con la riforma del 2020 costituisce un esempio paradigmatico di norma a struttura semi-chiusa. Essa richiedeva al giudice l’accertamento di “fondati motivi di ritenere” che l’allontanamento dal territorio nazionale comportasse una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, prevedendo contestualmente un espresso bilanciamento con esigenze di sicurezza nazionale, ordine e sicurezza pubblica, nonché un richiamo formale alle fonti sovranazionali di riferimento.

Si trattava, sotto il profilo tecnico, di una fattispecie articolata, che delimitava il perimetro dello scrutinio giudiziale attraverso una griglia di parametri predeterminati. Il giudice era chiamato a verificare la ricorrenza di quegli specifici presupposti, operando all’interno di un quadro normativo che, pur ampio, rimaneva strutturato e guidato dal legislatore.

In tale assetto, la tutela non era rimessa a una valutazione libera del diritto di asilo in quanto tale, ma passava attraverso il filtro di una specifica figura di permesso di soggiorno, con il rischio – non teorico – che la mancanza di uno dei parametri espressamente indicati potesse condurre a un esito negativo, anche in presenza di situazioni di vulnerabilità costituzionalmente rilevanti.

La destipizzazione e il recupero della centralità del giudice

La successiva eliminazione di quella parte dell’art. 19 non ha determinato la scomparsa della protezione sostanziale, ma la rimozione della sua tipizzazione legislativa. Venendo meno l’elenco dei presupposti e la struttura analitica della fattispecie, il giudice non è più chiamato a verificare l’inquadrabilità del caso in una specifica figura amministrativa, bensì a valutare direttamente la compatibilità dell’allontanamento con il complesso degli obblighi costituzionali e convenzionali gravanti sullo Stato.

Si assiste, in tal modo, a un passaggio da una tutela “mediata” dalla norma tipizzante a una tutela “diretta”, ancorata immediatamente ai principi del non-refoulement, alla salvaguardia dei diritti fondamentali e al contenuto essenziale del diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost.

Contrariamente a quanto spesso sostenuto, questa evoluzione non comporta una restrizione della tutela, ma un ampliamento dello spazio valutativo del giudice, il quale non è più vincolato a una fattispecie chiusa o semi-chiusa, ma può – e deve – procedere a una valutazione individualizzata, complessiva e concreta della situazione del singolo.

Il parallelismo con l’abolizione del permesso per motivi umanitari

Il medesimo schema si era già manifestato con l’eliminazione del permesso per motivi umanitari. Anche in quel caso, la soppressione di una specifica categoria di soggiorno era stata letta, in una prima fase, come una drastica compressione del diritto di asilo. In realtà, l’effetto sistemico è stato quello di spostare il fulcro della tutela dal nomen iuris del permesso alla verifica sostanziale delle condizioni di vulnerabilità.

Privato di una etichetta normativa precostituita, il giudice è stato chiamato a interrogarsi non più sulla riconducibilità del caso a una figura tipica, ma sulla legittimità costituzionale e convenzionale dell’allontanamento in concreto. Ancora una volta, la caduta della species non ha comportato l’estinzione del genus, ma ha reso più evidente la sua autonomia concettuale.

Protezione complementare come categoria aperta

La protezione complementare si configura, pertanto, come un’area di tutela strutturalmente aperta, che non può essere compressa o eliminata per via terminologica. Essa non coincide con una singola forma di permesso di soggiorno, ma rappresenta il contenitore giuridico entro cui si collocano tutte le ipotesi in cui l’allontanamento dello straniero risulterebbe incompatibile con i diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento.

In questa prospettiva, il venir meno di una tipizzazione normativa non riduce la protezione, ma ne riafferma la natura primaria e sovraordinata, sottraendola al rischio di una eccessiva amministrativizzazione e riaffidandola alla funzione propria del giudice quale garante ultimo dei diritti.

Considerazioni conclusive

La tesi secondo cui il Decreto Salvini e le successive riforme avrebbero progressivamente ristretto l’area del diritto di asilo si fonda, dunque, su una lettura formalistica e non sistematica. Il legislatore ha inciso sulle modalità di attuazione amministrativa, non sull’esistenza del diritto. Anzi, la progressiva destipizzazione ha finito per rafforzare il ruolo del giudice e per rendere ancora più evidente che la protezione complementare non è una concessione discrezionale, ma un obbligo giuridico che discende direttamente dalle fonti supreme dell’ordinamento.

In definitiva, il permesso per motivi umanitari prima e il permesso per protezione speciale poi devono essere correttamente intesi come specie contingenti di una categoria permanente. Quando le specie mutano o vengono eliminate, il diritto resta, e continua a imporsi all’interprete come parametro imprescindibile di legittimità dell’azione amministrativa.

martedì 16 dicembre 2025

La protezione complementare nel regime successivo al D.L. 20/2023: continuità della tutela della vita privata ex art. 8 CEDU e funzione dell’art. 5, comma 6, TUI

 

La protezione complementare nel regime successivo al D.L. 20/2023: continuità della tutela della vita privata ex art. 8 CEDU e funzione dell’art. 5, comma 6, TUI

Con riferimento alla pubblicazione integrale del decreto disponibile su Calameo:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae

Premessa

Il presente contributo analizza il decreto del Tribunale ordinario di Bologna, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, emesso in data 5 dicembre 2025 nel procedimento R.G. 10860/2024. Il provvedimento affronta in modo articolato la disciplina della protezione complementare nel quadro normativo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 20/2023, convertito con modificazioni dalla legge 50/2023.

La decisione assume particolare rilievo poiché interviene su una delle questioni più controverse del nuovo assetto normativo: la sorte della tutela della vita privata e familiare dopo l’abrogazione dei parametri espressamente previsti dall’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. 286/1998 nella sua formulazione previgente.

Il testo integrale del decreto è consultabile alla seguente pubblicazione:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae

La riforma del 2023 e la permanenza della tutela convenzionale

Il Tribunale chiarisce che l’intervento del legislatore del 2023 non ha inciso sul nucleo essenziale del divieto di refoulement né ha determinato l’eliminazione della tutela della vita privata e familiare quale fondamento della protezione complementare, in quanto diritto soggettivo ancorato a obblighi costituzionali e internazionali.

La motivazione valorizza il richiamo, tuttora presente nell’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione, all’art. 5, comma 6, del medesimo testo normativo, quale norma di chiusura del sistema e veicolo di integrazione degli obblighi derivanti dalla CEDU. In questa prospettiva, l’abrogazione dei criteri legali tipizzati non equivale alla soppressione della tutela, ma comporta il superamento di una disciplina rigida a favore di una clausola elastica.

La protezione complementare e il ruolo della giurisprudenza di legittimità

La decisione si inserisce consapevolmente nel solco tracciato dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha ribadito come la protezione complementare continui a operare anche in relazione alla vita privata e familiare dello straniero, in quanto espressione di obblighi sovraordinati rispetto alla legislazione ordinaria.

Il Tribunale recepisce l’impostazione secondo cui la riforma del 2023 ha inciso sulla tipicità normativa dell’istituto, ma non sulla sua funzione di tutela dei diritti fondamentali, riaffermando il ruolo del giudice nel ricostruire il contenuto della protezione complementare attraverso il bilanciamento degli interessi in gioco.

L’integrazione lavorativa come dimensione della vita privata

Nel caso esaminato, la protezione complementare viene riconosciuta sulla base della dimostrata esistenza di una vita privata radicata sul territorio nazionale. Il Tribunale attribuisce rilievo centrale alla stabilità lavorativa e reddituale del richiedente, richiamando espressamente l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui l’attività lavorativa costituisce uno degli spazi principali di sviluppo delle relazioni sociali e personali.

Il lavoro viene così considerato non come mero indicatore economico, ma come elemento strutturale della vita privata tutelata dall’art. 8 CEDU, coerentemente con l’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale in materia di protezione complementare.

Bilanciamento e limiti della protezione complementare

La pronuncia ribadisce che la protezione complementare non configura un diritto automatico né uno strumento di regolarizzazione generalizzata. Resta imprescindibile il bilanciamento con le esigenze di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza.

La tutela opera, dunque, solo in presenza di un radicamento effettivo e significativo e in assenza di elementi ostativi prevalenti, confermando una concezione rigorosa e non espansiva dell’istituto.

Considerazioni conclusive

Il decreto del Tribunale di Bologna del 5 dicembre 2025 rappresenta un contributo di particolare rilievo alla ricostruzione dell’istituto della protezione complementare nel periodo successivo al D.L. 20/2023. La decisione conferma che la riforma non ha svuotato l’istituto, ma ne ha ridefinito la tecnica applicativa, restituendo centralità al giudizio concreto e al bilanciamento dei diritti fondamentali.

La pubblicazione integrale del provvedimento consente di apprezzare una motivazione ampia e sistematica, idonea a costituire un punto di riferimento per la prassi giudiziaria e per il dibattito dottrinale.

Testo integrale del decreto disponibile su Calameo:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae


Avv. Fabio Loscerbo

domenica 14 dicembre 2025

Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

 Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato


La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Sezione Prima, numero 01561 del 2025, depositata nel dicembre 2025, offre l’occasione per tornare su un tema centrale e tutt’altro che pacifico nel diritto dell’immigrazione: l’incidenza delle condanne penali in materia di stupefacenti sulla possibilità di ottenere il rinnovo o la conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato.

Il provvedimento, pubblicato integralmente e consultabile al seguente link
https://www.calameo.com/books/0080797757982a2aef314
si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ma ne chiarisce con particolare nettezza i confini applicativi, distinguendo tra ipotesi di automatismo ostativo e residui spazi di valutazione discrezionale in capo all’amministrazione.

La controversia trae origine dal diniego opposto dalla Questura a una istanza di rinnovo e conversione di un permesso di soggiorno per motivi familiari in permesso per lavoro subordinato. Il diniego era fondato sull’esistenza di una condanna definitiva per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, pronunciata ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis, del DPR 309 del 90. La difesa aveva contestato l’automatismo applicato dall’amministrazione, invocando una valutazione complessiva della situazione personale, lavorativa e sociale dell’interessato.

Il TAR chiarisce preliminarmente il corretto inquadramento normativo della fattispecie, escludendo l’applicabilità dell’articolo 9 del Testo Unico Immigrazione, relativo al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, e riconducendo il caso agli articoli 4, comma 3, e 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. In tale ambito, la condanna per reati inerenti gli stupefacenti, nelle forme più gravi previste dalla legge, integra una causa ostativa automatica al rilascio e alla conversione del permesso di soggiorno per lavoro.

La sentenza ribadisce che, in presenza di tali condanne, non assumono rilievo né la sospensione condizionale della pena, né la concessione di attenuanti, né il tempo trascorso dalla commissione del fatto. L’amministrazione, in questi casi, non dispone di un potere valutativo pieno, ma è vincolata al diniego del titolo di soggiorno richiesto.

Un passaggio centrale della decisione riguarda tuttavia l’unica eccezione a tale automatismo: la presenza di legami familiari effettivi e attuali con soggetti regolarmente residenti in Italia. Solo in presenza di una reale unità familiare, dimostrata in modo concreto e non meramente formale, l’articolo 5, comma 5, del Testo Unico Immigrazione impone all’amministrazione una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico alla sicurezza e la tutela della vita familiare, anche alla luce dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nel caso esaminato, il TAR ritiene che tale presupposto non fosse integrato, evidenziando l’assenza di una convivenza effettiva e la mancata dimostrazione di un nucleo familiare attuale. Ne deriva, coerentemente, la conferma del carattere vincolato del diniego.

La decisione si presta a una riflessione più ampia sul rapporto tra integrazione sociale e automatismi normativi nel diritto dell’immigrazione. Molti stranieri confidano nel fatto che una condanna ormai “scontata” o risalente nel tempo non incida più sul loro percorso amministrativo. La sentenza in commento dimostra invece come, almeno in materia di permesso di soggiorno per lavoro subordinato, alcune condanne continuino a operare come barriere giuridiche difficilmente superabili, indipendentemente dal successivo inserimento lavorativo o sociale.

In questo senso, il provvedimento del TAR Emilia-Romagna rappresenta un punto fermo sullo stato attuale del diritto vivente, offrendo agli operatori del settore un quadro chiaro dei limiti entro i quali può essere utilmente invocata la valutazione discrezionale dell’amministrazione e, al contempo, dei casi in cui tale valutazione risulta giuridicamente preclusa.


Podcast collegati alla sentenza


Avv. Fabio Loscerbo

Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

 Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Sezione Prima, numero 01561 del 2025, depositata nel dicembre 2025, offre l’occasione per tornare su un tema centrale e tutt’altro che pacifico nel diritto dell’immigrazione: l’incidenza delle condanne penali in materia di stupefacenti sulla possibilità di ottenere il rinnovo o la conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato.

Il provvedimento, pubblicato integralmente e consultabile al seguente link
https://www.calameo.com/books/0080797757982a2aef314
si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ma ne chiarisce con particolare nettezza i confini applicativi, distinguendo tra ipotesi di automatismo ostativo e residui spazi di valutazione discrezionale in capo all’amministrazione.

La controversia trae origine dal diniego opposto dalla Questura a una istanza di rinnovo e conversione di un permesso di soggiorno per motivi familiari in permesso per lavoro subordinato. Il diniego era fondato sull’esistenza di una condanna definitiva per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, pronunciata ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis, del DPR 309 del 90. La difesa aveva contestato l’automatismo applicato dall’amministrazione, invocando una valutazione complessiva della situazione personale, lavorativa e sociale dell’interessato.

Il TAR chiarisce preliminarmente il corretto inquadramento normativo della fattispecie, escludendo l’applicabilità dell’articolo 9 del Testo Unico Immigrazione, relativo al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, e riconducendo il caso agli articoli 4, comma 3, e 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. In tale ambito, la condanna per reati inerenti gli stupefacenti, nelle forme più gravi previste dalla legge, integra una causa ostativa automatica al rilascio e alla conversione del permesso di soggiorno per lavoro.

La sentenza ribadisce che, in presenza di tali condanne, non assumono rilievo né la sospensione condizionale della pena, né la concessione di attenuanti, né il tempo trascorso dalla commissione del fatto. L’amministrazione, in questi casi, non dispone di un potere valutativo pieno, ma è vincolata al diniego del titolo di soggiorno richiesto.

Un passaggio centrale della decisione riguarda tuttavia l’unica eccezione a tale automatismo: la presenza di legami familiari effettivi e attuali con soggetti regolarmente residenti in Italia. Solo in presenza di una reale unità familiare, dimostrata in modo concreto e non meramente formale, l’articolo 5, comma 5, del Testo Unico Immigrazione impone all’amministrazione una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico alla sicurezza e la tutela della vita familiare, anche alla luce dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nel caso esaminato, il TAR ritiene che tale presupposto non fosse integrato, evidenziando l’assenza di una convivenza effettiva e la mancata dimostrazione di un nucleo familiare attuale. Ne deriva, coerentemente, la conferma del carattere vincolato del diniego.

La decisione si presta a una riflessione più ampia sul rapporto tra integrazione sociale e automatismi normativi nel diritto dell’immigrazione. Molti stranieri confidano nel fatto che una condanna ormai “scontata” o risalente nel tempo non incida più sul loro percorso amministrativo. La sentenza in commento dimostra invece come, almeno in materia di permesso di soggiorno per lavoro subordinato, alcune condanne continuino a operare come barriere giuridiche difficilmente superabili, indipendentemente dal successivo inserimento lavorativo o sociale.

In questo senso, il provvedimento del TAR Emilia-Romagna rappresenta un punto fermo sullo stato attuale del diritto vivente, offrendo agli operatori del settore un quadro chiaro dei limiti entro i quali può essere utilmente invocata la valutazione discrezionale dell’amministrazione e, al contempo, dei casi in cui tale valutazione risulta giuridicamente preclusa.


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Avv. Fabio Loscerbo

sabato 13 dicembre 2025

 Il diritto penale è, per definizione, extrema ratio. Anche quando si confronta con l’immigrazione e il diritto di asilo.

venerdì 12 dicembre 2025

La denuncia alla Commissione europea per presunta violazione del diritto dell’Unione: natura, limiti e funzione sistemica

 

La denuncia alla Commissione europea per presunta violazione del diritto dell’Unione: natura, limiti e funzione sistemica

Abstract

La procedura di denuncia alla Commissione europea costituisce uno strumento di garanzia dell’ordinamento unionale, finalizzato a segnalare eventuali violazioni del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri. Pur essendo accessibile a chiunque, essa non rappresenta un rimedio individuale e non offre una tutela diretta rispetto a casi isolati. L’analisi dei documenti ufficiali pubblicati su Calameo, disponibili ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6, consente di comprendere il funzionamento interno di questa procedura, i criteri valutativi della Commissione e i limiti strutturali che delimitano il suo raggio d’azione.

1. La natura della denuncia nel sistema del diritto dell’Unione

La denuncia presentata alla Commissione europea trova il suo fondamento nell’articolo 17 del Trattato sull’Unione europea, che attribuisce all’istituzione il ruolo di custode dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione. Il primo documento pubblicato su Calameo (https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22) chiarisce che la registrazione della denuncia rappresenta soltanto l’avvio di una valutazione amministrativa preliminare, nel corso della quale la Commissione esamina la pertinenza della questione rispetto all’interesse generale dell’Unione. L’atto evidenzia come il denunciante non acquisisca alcun diritto soggettivo alla prosecuzione del procedimento, poiché la funzione della Commissione non è quella di risolvere controversie individuali, ma di individuare eventuali criticità sistemiche nella legislazione o nelle prassi amministrative degli Stati membri.

2. I presupposti per l’intervento della Commissione

La Commissione procede alla fase successiva della procedura solo quando la denuncia presenta elementi idonei a dimostrare una violazione strutturale del diritto europeo. Il secondo documento, pubblicato al link https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6, illustra con chiarezza tale criterio, specificando che l’istituzione può intervenire esclusivamente laddove emergano pratiche amministrative caratterizzate da generalità, costanza e documentazione adeguata. Questo principio, più volte ribadito anche dalla giurisprudenza dell’Unione, impedisce alla Commissione di assumere un ruolo sostitutivo rispetto alle autorità amministrative o giurisdizionali nazionali. In assenza di tali presupposti, l’istituzione invita il denunciante a utilizzare i rimedi interni previsti dall’ordinamento dello Stato membro, che restano lo strumento più diretto ed effettivo per ottenere tutela nel caso concreto.

3. La funzione del preavviso di archiviazione

Il preavviso di archiviazione rappresenta una fase fisiologica della procedura. Attraverso questa comunicazione la Commissione manifesta l’intenzione di chiudere il fascicolo, salvo la presentazione di nuovi elementi che possano modificare la valutazione iniziale. Tale fase, descritta nei documenti pubblicati, svolge un ruolo essenziale nella garanzia partecipativa del denunciante, poiché consente di integrare informazioni rilevanti o chiarire aspetti che non erano stati evidenziati nella prima valutazione. La logica che guida la Commissione rimane comunque orientata alla verifica dell’esistenza di un interesse europeo generale, distinto dalla tutela della posizione sostanziale del singolo.

4. Il rapporto tra denuncia europea e rimedi nazionali

La lettura congiunta dei documenti ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6 evidenzia con nettezza che la denuncia non sospende i termini per la proposizione di ricorsi nazionali e non può sostituire gli strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento interno. La Commissione chiarisce che la sua eventuale iniziativa ha natura sistemica e non è rivolta a ottenere un risultato immediato sul caso individuale. Questa distinzione è fondamentale poiché consente di comprendere il corretto impiego della procedura: essa non è pensata come rimedio per ottenere provvedimenti urgenti o correttivi, ma come meccanismo di vigilanza sulla coerenza dell’azione degli Stati membri con il diritto dell’Unione.

5. La dimensione sistemica delle segnalazioni nel settore dell’immigrazione

Nel contesto del diritto dell’immigrazione, si registrano frequentemente situazioni nelle quali l’accesso alle procedure amministrative risulta difficoltoso. I documenti della Commissione mostrano chiaramente che difficoltà isolate non sono sufficienti per fondare un intervento europeo. È necessario, invece, che emerga un quadro più ampio, composto da dati, segnalazioni ripetute o evidenze documentate che dimostrino una disfunzione generalizzata. In mancanza di tale dimensione sistemica, la competenza primaria resta degli organi nazionali. La procedura di denuncia svolge comunque un ruolo importante, poiché consente di portare all’attenzione della Commissione eventuali criticità emergenti, che potrebbero assumere rilievo nel momento in cui diventino abituali o estese.

6. Conclusioni

La procedura di denuncia alla Commissione europea è uno strumento di garanzia dell’ordinamento dell’Unione, ma non può essere interpretata come un mezzo di tutela immediata della posizione soggettiva del denunciante. La sua operatività è condizionata dalla capacità di dimostrare l’esistenza di violazioni strutturali e non episodiche, e dalla distinzione netta tra il ruolo della Commissione e quello dei giudici nazionali. I documenti pubblicati su Calameo ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6 consentono di ricostruire con precisione questa architettura giuridica, offrendo una lettura chiara e completa delle dinamiche procedurali e dei limiti istituzionali che caratterizzano l’azione della Commissione. La conoscenza approfondita di tali meccanismi è essenziale per orientare correttamente qualsiasi strategia difensiva che coinvolga il diritto dell’Unione e i sistemi di tutela multilivello.


Avv. Fabio Loscerbo

Protezione complementare – Nota al Decreto del Tribunale di Firenze, camera di consiglio del 4 dicembre 2025 (R.G. 12055/2024)

TEMA: Protezione complementare – Nota al Decreto del Tribunale di Firenze, camera di consiglio del 4 dicembre 2025 (R.G. 12055/2024)

Abstract
Il decreto del Tribunale di Firenze del 4 dicembre 2025 offre un’ulteriore conferma dell’evoluzione interpretativa della protezione complementare alla luce del quadro normativo successivo al Decreto-Legge 20/2023. La decisione valorizza in modo rigoroso la funzione costituzionale del divieto di refoulement e la necessità di una valutazione comparativa concreta tra integrazione effettiva in Italia e prospettive di vita nel Paese di origine. Il provvedimento è disponibile per la consultazione e il download al seguente link: https://www.calameo.com/books/008079775a54122e54b1f.


1. Il contesto normativo e la cornice intertemporale applicabile

Il Tribunale di Firenze muove da una ricostruzione puntuale del diritto vigente in materia di protezione complementare, ricordando come l’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione, nel suo nucleo essenziale, non sia stato inciso dal Decreto-Legge 20/2023, convertito con modificazioni dalla Legge 50/2023.

Rimangono pertanto pienamente operativi:
– il divieto di respingimento ed espulsione in presenza di rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti;
– gli obblighi derivanti dall’articolo 5, comma 6, TUI;
– il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano.

L’abrogazione dei periodi relativi alla tutela della vita privata e familiare ha riportato il sistema alla logica antecedente alla riforma del 2020, senza espungere tuttavia l’effettiva tutela derivante dagli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione e dall’articolo 8 CEDU.

Sul piano intertemporale, il Tribunale chiarisce che la domanda proposta dopo l’11 marzo 2023 rientra nell’ambito applicativo del nuovo quadro normativo, come previsto dall’articolo 7, secondo comma, del Decreto-Legge 20/2023.

In questo assetto, la protezione complementare continua a fondarsi sui principi elaborati dalla Corte di cassazione nelle pronunce del 2018, 2019 e 2021, che hanno definito il perimetro della comparazione tra radicamento in Italia e condizione nel Paese di origine.


2. La comparazione tra integrazione in Italia e rischio di vulnerabilità in caso di rimpatrio

La decisione attribuisce rilievo centrale alla valutazione comparativa, ritenendo che l’allontanamento del ricorrente comporterebbe un evidente deterioramento delle sue condizioni di vita privata e familiare.

Il percorso di integrazione viene documentato attraverso elementi concreti:

– una continuità lavorativa che culmina nella trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro;
– una stabilità abitativa certificata dalla residenza anagrafica;
– un percorso formativo in lingua italiana;
– una crescente autonomia personale, testimoniata anche dall’iscrizione agli esami per la patente di guida.

Il Tribunale sottolinea che il ritorno in Marocco determinerebbe un significativo scadimento delle condizioni di vita, alla luce dell’indebolimento dei legami familiari e sociali nel Paese di origine.

In ciò si riflette la giurisprudenza delle Sezioni Unite secondo cui la protezione complementare si fonda sulla tutela effettiva dei diritti riconosciuti dagli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione e dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.


3. L’obbligo di protezione derivante dagli articoli 5, comma 6, TUI e 8 CEDU

Un passaggio particolarmente rilevante della motivazione afferma che, quando l’allontanamento della persona determinerebbe la violazione di obblighi costituzionali o internazionali, il rilascio del permesso per protezione speciale non è una scelta discrezionale, ma una conseguenza necessaria.

Il Tribunale riconosce che il rimpatrio del ricorrente esporrebbe quest’ultimo a una compromissione “certa e rilevante” dei suoi diritti fondamentali, in assenza di qualunque esigenza di sicurezza nazionale o ordine pubblico che possa prevalere.

Si tratta di un’applicazione chiara dei principi enunciati dalle Sezioni Unite del 2021, secondo cui l’integrazione effettiva raggiunta nel Paese ospitante può incidere in maniera decisiva nella comparazione.


4. Rilievo pratico della decisione e implicazioni per gli operatori del diritto

La decisione del Tribunale di Firenze si inserisce con coerenza nel solco delle più recenti pronunce in materia di protezione complementare.

Essa conferma che:
– la protezione complementare continua a rappresentare una clausola di salvaguardia costituzionale e convenzionale;
– l’amministrazione non può eludere il giudizio comparativo richiesto dagli obblighi costituzionali;
– il percorso di integrazione non è un elemento marginale, ma una componente essenziale nella valutazione della vulnerabilità in caso di rimpatrio.

Il provvedimento, disponibile al link https://www.calameo.com/books/008079775a54122e54b1f, costituisce quindi un utile riferimento per orientare l’attività difensiva e quella amministrativa, in un quadro normativo in cui la protezione complementare mantiene un ruolo determinante.


Avv. Fabio Loscerbo

mercoledì 10 dicembre 2025

Protezione complementare, integrazione e obblighi costituzionali nella giurisprudenza più recente(Nota a Tribunale di Bologna, Sez. Immigrazione, decreto 19 novembre 2025, R.G. 11421/2024)


Abstract
Il decreto del Tribunale di Bologna del 19 novembre 2025 rappresenta un riferimento significativo per comprendere la funzione attuale della protezione complementare dopo la riforma del D.L. 20/2023. Sebbene il legislatore abbia eliminato i criteri normativi che tipizzavano la valutazione della vita privata e familiare, la decisione ribadisce che l’istituto mantiene un solido fondamento negli obblighi costituzionali e internazionali, che non possono essere compressi per effetto di modifiche legislative. Il provvedimento conferma inoltre il ruolo decisivo del giudice nella ricostruzione del perimetro dell’art. 19 TUI, attraverso un giudizio comparativo che valorizza i percorsi di integrazione individuali e la proporzionalità delle misure di allontanamento.


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1. Il contesto processuale e l’oggetto del giudizio

Il procedimento trae origine dall’impugnazione del rigetto della domanda di protezione internazionale, esaminata in procedura accelerata, rispetto alla quale il Tribunale riconosce l’automatica sospensione per violazione dei termini procedurali. L’attenzione del Collegio si concentra esclusivamente sulla richiesta di protezione complementare, dato che il ricorrente non ha più insistito sulle forme maggiori di tutela. La documentazione sopravvenuta durante il giudizio, che attesta un percorso di integrazione rapida e coerente, diventa centrale per valutare se l’allontanamento possa determinare una lesione sproporzionata della vita privata ai sensi dell’art. 19 TUI e dell’art. 8 CEDU. Il quadro familiare, caratterizzato dalla presenza in Italia di una sorella regolarmente soggiornante, si combina con il radicamento lavorativo e imprenditoriale per delineare una identità sociale diversa da quella che il ricorrente avrebbe nel Paese d’origine.


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2. Il quadro normativo dopo il D.L. 20/2023 e la persistenza strutturale della protezione complementare

La riforma del 2023 interviene sull’art. 19 TUI, eliminando gli indici normativi che fino ad allora guidavano la valutazione della vita privata e familiare. Il legislatore, tuttavia, non modifica l’ossatura dell’istituto, poiché resta intatto il rinvio agli obblighi costituzionali e internazionali contenuto nell’art. 5, comma 6, TUI. La Corte di cassazione, attraverso decisioni recenti richiamate dal Tribunale, sottolinea che il diritto al rispetto della vita privata e familiare continua a essere pienamente operante, poiché protetto non solo dalla CEDU ma anche dalla Costituzione. La sentenza n. 29593/2025 assume rilievo particolare, poiché chiarisce che la soppressione dei criteri legislativi non riduce l’estensione delle garanzie. L’interprete è anzi chiamato a ricostruire tali criteri attraverso i principi elaborati dalla Corte EDU e dalla stessa Cassazione, seguendo una logica di integrazione tra fonti convenzionali e costituzionali. Da ciò deriva una trasformazione dell’istituto: meno tipizzato sul piano normativo, più affidato al giudizio ponderato del giudice e al rispetto del principio di proporzionalità.


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3. L’integrazione come elemento qualificante della vita privata

Una parte significativa del decreto è dedicata all’analisi del percorso di integrazione del ricorrente. L’avvio di un’attività autonoma con risultati economici rilevanti, documentati da fatture e dichiarazioni reddituali, attesta una capacità di auto-sostentamento che non si esaurisce nel mero dato economico, ma segnala una volontà effettiva di costruire in Italia una rete di relazioni sociali e professionali. Il Collegio valorizza espressamente la funzione sociale del lavoro, riprendendo la giurisprudenza della Corte EDU secondo cui la vita professionale può costituire parte integrante della vita privata (Niemietz c. Germania, 1992). La presenza di relazioni familiari stabili e la conoscenza adeguata della lingua italiana contribuiscono ulteriormente a definire una vita privata radicata nel contesto sociale italiano. Questa dimensione complessiva dell’integrazione permette al giudice di cogliere l’effettiva trasformazione identitaria del soggetto, che ha sviluppato legami significativi e una progettualità incompatibile con un ritorno forzato nel Paese d’origine.


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4. Il giudizio comparativo e la sproporzione dell’allontanamento

Il Tribunale procede alla valutazione comparativa tra la situazione attuale del ricorrente e quella cui sarebbe esposto in caso di rimpatrio, secondo il metodo già affermato dalla Corte di cassazione per la protezione complementare. L’allontanamento risulterebbe sproporzionato rispetto allo sviluppo raggiunto in Italia, anche considerando l’assenza di prospettive economiche e di sostegno familiare effettivo nel Paese di origine. Il Collegio non rileva inoltre motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico che possano giustificare un’ingerenza così incisiva nella vita privata dell’interessato. La protezione complementare si rivela quindi coerente con la finalità di evitare che l’espulsione comporti una violazione grave e sproporzionata dei diritti fondamentali, confermando il ruolo centrale della proporzionalità come limite sostanziale all’azione amministrativa.


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5. Il ruolo della giurisdizione dopo la riforma del 2023

La decisione del Tribunale di Bologna mette in evidenza la funzione di supplenza che la giurisdizione è oggi chiamata a svolgere. La scelta del legislatore di eliminare gli indici normativi non semplifica l’applicazione dell’istituto, ma richiede un intervento interpretativo più articolato, fondato sul dialogo tra diritto interno, Costituzione e CEDU. La protezione complementare si trasforma così in un istituto che esige una valutazione individualizzata e non schematica, grazie alla quale il giudice diventa il garante effettivo dell’equilibrio tra esigenze di controllo dei flussi migratori e tutela della dignità della persona. L’assenza di parametri legislativi rigidi rafforza di fatto il ruolo della giurisprudenza nel definire, caso per caso, il contenuto del diritto.


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Conclusioni

Il decreto del 19 novembre 2025 rappresenta un contributo importante nella ricostruzione dell’istituto della protezione complementare. Il Tribunale riafferma che la tutela della vita privata non può essere sacrificata in nome di esigenze amministrative, quando il percorso di integrazione risulti effettivo e radicato. L’interpretazione adottata mostra come l’istituto, pur privato di tipizzazioni normative, mantenga una forte coerenza sistemica grazie al richiamo agli obblighi costituzionali e convenzionali. La protezione complementare emerge così non come uno strumento residuale, ma come un presidio essenziale per garantire la proporzionalità dell’allontanamento e la dignità della persona migrante.


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Avv. Fabio Loscerbo

lunedì 8 dicembre 2025





 

Nuevo episodio del pódcast “Derecho de la Inmigración” Título: Denegación del permiso de residencia por trabajo autónomo y requisitos obligatorios: la sentencia del TAR de Lecce del 19 de noviembre de 2025


 Nuevo episodio del pódcast “Derecho de la Inmigración”

Título: Denegación del permiso de residencia por trabajo autónomo y requisitos obligatorios: la sentencia del TAR de Lecce del 19 de noviembre de 2025


Buenos días, soy el abogado Fabio Loscerbo y este es un nuevo episodio del pódcast Derecho de la Inmigración.

Hoy analizamos una reciente decisión del Tribunal Administrativo Regional (TAR) de Apulia – sede de Lecce, dictada el 19 de noviembre de 2025 y publicada el 28 de noviembre de 2025, relativa a la denegación de la renovación de un permiso de residencia por trabajo autónomo.

El caso gira en torno a tres aspectos esenciales: el cumplimiento de los requisitos establecidos por el Texto Único de Inmigración, la valoración de la peligrosidad social y la incidencia de los vínculos familiares en Italia.

El Tribunal recuerda que, en materia de trabajo autónomo, los requisitos legales son estrictos: el solicitante debe demostrar un ingreso anual lícito superior al umbral previsto y la disponibilidad de un alojamiento adecuado. En este caso, no se acreditaron ni ingresos suficientes ni una vivienda idónea. La normativa no permite basarse en perspectivas futuras ni considerar estas carencias como irregularidades subsanables posteriormente.

En cuanto a la seguridad pública, la Administración tuvo en cuenta diversos antecedentes penales y policiales. El Tribunal confirma que tales elementos pueden valorarse incluso sin una condena penal firme, cuando indican una conducta incompatible con la renovación del permiso.

Respecto a los vínculos familiares, el solicitante era padre de una menor italiana, pero no convivía con ella ni mantenía una relación estable documentada. El Tribunal sigue la jurisprudencia consolidada según la cual la presencia de un hijo en Italia no impide, por sí sola, una denegación cuando prevalecen razones de orden público.

La sentencia concluye que la decisión de la Questura fue legítima, suficientemente motivada y apoyada en una instrucción adecuada.

Con este episodio hemos resumido una resolución que aclara cómo se aplican en la práctica los requisitos del permiso de residencia por trabajo autónomo y cómo interactúan con la valoración de la peligrosidad social.

Nos escuchamos en el próximo episodio de Derecho de la Inmigración.

Benvenuti su "Osservatorio Giuridico dell'Immigrazione"

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