sabato 15 novembre 2025

Rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo e onere probatorio sui mezzi di sussistenza

 Rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo e onere probatorio sui mezzi di sussistenza

Abstract
La decisione del Tribunale Amministrativo Regionionale per la Lombardia – sezione staccata di Brescia, depositata il 31 ottobre 2025 (R.G. 821/2024 e 822/2024), offre un’occasione di approfondimento sui criteri applicativi degli articoli 4, 5 e 26 del Testo Unico Immigrazione e dell’articolo 13 del DPR 394/1999, con particolare riferimento alla dimostrazione dei mezzi di sussistenza nei procedimenti di rinnovo del titolo per lavoro autonomo. Il giudice amministrativo conferma l’impostazione tradizionale: il requisito reddituale deve essere attuale, effettivo e documentalmente comprovato nella fase procedimentale, mentre gli elementi sopravvenuti rilevano solo se già esistenti e conoscibili dall’Amministrazione al momento della decisione.


L’analisi della sentenza pronunciata dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia – sezione staccata di Brescia, depositata il 31 ottobre 2025, impone di cogliere subito il fulcro del ragionamento giuridico: la centralità del requisito dei mezzi di sussistenza nel sistema del soggiorno per lavoro autonomo e la natura rigorosa dell’onere probatorio in capo allo straniero richiedente il rinnovo.

Il quadro normativo presenta una coerenza interna che il giudice valorizza con precisione. L’articolo 4, comma 3, del decreto legislativo 286/1998 subordina l’ingresso dello straniero alla disponibilità di risorse economiche adeguate; l’articolo 5, comma 5, condiziona il rinnovo al permanere dei requisiti previsti per il rilascio; l’articolo 13 del DPR 394/1999 richiede la dimostrazione di un reddito da fonti lecite sufficiente al mantenimento proprio e dei familiari conviventi. L’articolo 26 del TUI, specificamente dedicato al lavoro autonomo, integra questi elementi richiedendo un reddito superiore alla soglia per l’esenzione dalla spesa sanitaria e una sistemazione alloggiativa idonea.

La sentenza approfondisce un nodo applicativo ricorrente: la produzione documentale incompleta o tardiva. Il TAR ribadisce che la legittimità del provvedimento amministrativo va valutata in base agli elementi esistenti e conoscibili al momento dell’adozione dell’atto. Questo principio esclude qualsiasi rimessione in termini attraverso la produzione giudiziale di documenti non presenti nel procedimento, richiamando l’orientamento del Consiglio di Stato secondo cui gli elementi sopravvenuti rilevano soltanto se già esistenti e rappresentati o rappresentabili anteriormente alla decisione.

Il Collegio si sofferma, inoltre, sulla natura del materiale probatorio fornito dai ricorrenti. Le perdite di esercizio della società, l’inattività dell’impresa e l’assenza di flussi reddituali dimostrabili hanno evidenziato una carenza strutturale della capacità economica richiesta. L’acquisto di un immobile – correttamente qualificato come indice patrimoniale privo di rilevanza reddituale – non può supplire all’assenza di entrate lecite e stabili. Ancora più significativa è la questione delle disponibilità bancarie: esse non erano state portate all’attenzione dell’Amministrazione pur essendo già nella disponibilità dei richiedenti, e non potevano quindi essere valorizzate come sopravvenienze utili ai sensi dell’articolo 5, comma 5, TUI.

La pronuncia conferma una linea interpretativa coerente: il permesso di soggiorno per lavoro autonomo presuppone la presenza di un’attività produttiva effettiva, idonea a garantire un radicamento economico reale e non meramente potenziale. Il requisito reddituale costituisce un indice imprescindibile della sostenibilità della permanenza sul territorio nazionale e della capacità del soggetto di contribuire alla vita economica e sociale del Paese senza ricorrere a forme di sostegno improprio.

Significativa è anche la ricostruzione del giudice sul ruolo del preavviso di rigetto: una volta acquisita la documentazione integrativa, l’Amministrazione non è tenuta a reiterare la comunicazione se gli elementi forniti non incidono sull’esito prefigurato. Il procedimento resta, dunque, il luogo centrale e determinante per la completezza dell’istruttoria.

In conclusione, la sentenza del TAR Lombardia riafferma la struttura tradizionale del sistema: il rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo richiede un onere probatorio pieno, attuale e tempestivo, non surrogabile da prospettive future o da documentazione tardiva. L’evoluzione giurisprudenziale conferma la solidità di un modello orientato alla verifica della sostenibilità economica del soggiorno, che si inserisce nel più ampio principio di integrazione responsabile e partecipata.


Avvocato Fabio Loscerbo

Revoca del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: note alla sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione Quarta, 3 aprile 2025 (pubblicazione 28 maggio 2025)

 Revoca del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo: note alla sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione Quarta, 3 aprile 2025 (pubblicazione 28 maggio 2025)

di Avvocato Fabio Loscerbo


Abstract

La decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione Quarta, resa all’esito dell’udienza del 3 aprile 2025 e pubblicata il 28 maggio 2025, offre un’occasione utile per tornare su un tema classico del diritto dell’immigrazione: la revoca del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo ai sensi dell’articolo 9 del Testo Unico Immigrazione. In un contesto segnato da un progressivo irrigidimento delle politiche di sicurezza, la pronuncia esamina il corretto equilibrio tra valutazione della pericolosità sociale dello straniero, tutela dell’ordine pubblico e salvaguardia dei legami familiari e dell’integrazione maturata nel territorio nazionale.


1. Il quadro normativo e la centralità della valutazione individuale

L’articolo 9 del decreto legislativo 286 del 1998 disciplina il rilascio, il diniego e la revoca del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Il comma 4 attribuisce al questore un ampio margine valutativo, imponendo però la considerazione congiunta di elementi eterogenei: eventuali condanne per reati gravi, modalità della condotta, durata del soggiorno, legami familiari, integrazione sociale e lavorativa.

Il successivo comma 7 estende tali criteri alla revoca, richiedendo una specifica ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti. La giurisprudenza costituzionale e amministrativa ha sempre escluso automatismi espulsivi, sottolineando la necessità di un giudizio attuale, individuale e proporzionato.

Di particolare rilievo, richiamato anche dal TAR, è il passaggio della Corte costituzionale secondo cui il provvedimento deve fondarsi su “un giudizio di pericolosità sociale dello straniero, con una motivazione articolata non solo con riguardo alla circostanza dell'intervenuta condanna, ma su più elementi” (Corte costituzionale, ordinanza 27 marzo 2014, numero 58).

Rilevante è anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che con la sentenza del 3 settembre 2020 nelle cause riunite C-503/19 e C-592/19 ha affermato che il mero richiamo a precedenti penali non può fondare un diniego o una revoca dello status di soggiornante di lungo periodo senza un’analisi individualizzata, che consideri natura del reato, pericolo effettivo per l’ordine pubblico, durata del soggiorno e forza dei legami con lo Stato membro.


2. La vicenda esaminata dal TAR e la struttura dell’argomentazione

Nel caso oggetto della sentenza, lo straniero – cittadino di lungo corso e con legami familiari in Italia – aveva impugnato un decreto di revoca del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo, sostenendo che la decisione fosse fondata su un automatismo derivante dalla condanna penale riportata.

Il Tribunale, esaminando gli atti amministrativi, ha invece ritenuto che l’amministrazione avesse svolto una valutazione articolata: non solo considerazione delle condotte delittuose e delle successive frequentazioni, ma anche esame delle fonti di reddito, del comportamento complessivo, del contesto di vita e dei legami familiari. Il TAR conclude che la pericolosità attuale sia stata logicamente motivata e che la tutela dell’ordine pubblico prevalga, in quel caso concreto, sull’interesse alla stabilità del soggiorno.

Degno di nota è il riferimento del Collegio alla “ponderazione comparativa” richiesta dal diritto dell’Unione, che deve essere effettiva e non formale. Nella ricostruzione giudiziale, tale ponderazione risulta adeguatamente condotta.


3. Spunti critici e continuità con l’impostazione tradizionale

La sentenza si colloca nella scia interpretativa che privilegia un approccio rigoroso alla tutela dell’ordine pubblico, pur ribadendo l’obbligo dell’amministrazione di motivare in modo circostanziato la revoca del titolo.

Da un lato, emerge chiaramente il richiamo al principio di individualizzazione e alla ratio europeista che rifiuta ogni automatismo; dall’altro, la decisione valorizza la discrezionalità amministrativa nella ricostruzione della pericolosità, confermando che il permesso di soggiorno UE di lungo periodo non attribuisce un diritto assoluto.

Sul piano pratico, la decisione ribadisce l’importanza, per la difesa, di contestare puntualmente gli elementi considerati dall’amministrazione e di fornire un quadro completo del percorso di integrazione, della stabilità economica e dei legami affettivi, elementi che, ove significativi e attuali, possono incidere in modo determinante sull’esito del giudizio.


4. Conclusioni

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, con la sentenza resa il 3 aprile 2025 e pubblicata il 28 maggio 2025, riafferma l’equilibrio tra dovere statale di tutela dell’ordine pubblico e garanzie dello straniero di lungo periodo, mantenendo un’impostazione coerente con i principi costituzionali e con le indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia.

La decisione conferma, in definitiva, l’impostazione tradizionale secondo cui la revoca del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo richiede un giudizio articolato, ma la valutazione della pericolosità può prevalere, nei casi concreti, sugli interessi familiari e sull’integrazione qualora emergano elementi attuali e significativi che giustifichino l’allontanamento.


Avvocato Fabio Loscerbo

martedì 4 novembre 2025

Quando non basta la promessa di un lavoro: il TAR Lazio chiarisce i limiti del permesso per attesa occupazione

 


Quando non basta la promessa di un lavoro: il TAR Lazio chiarisce i limiti del permesso per attesa occupazione

Pubblicato il 5 novembre 2025

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con la sentenza n. 19426/2025 (Sez. I Ter, R.G. 9173/2022), ha ribadito un principio fondamentale in materia di diritto dell’immigrazione: il permesso di soggiorno per attesa occupazione può essere rilasciato solo in seguito alla cessazione di un rapporto di lavoro effettivamente instaurato, e non sulla base di una semplice promessa di impiego.

La decisione riguarda il ricorso di una cittadina straniera contro il diniego della Prefettura di Roma, che aveva respinto la sua domanda di regolarizzazione presentata ai sensi dell’art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. 34/2020). La Prefettura aveva ritenuto inesistente il rapporto di lavoro dichiarato, in quanto mai formalizzato né comunicato agli enti competenti.

La ricorrente sosteneva di aver lavorato come collaboratrice domestica e di aver versato i contributi previdenziali tramite un sindacato di categoria. Tuttavia, il TAR ha sottolineato che il pagamento dei contributi non è sufficiente a provare l’effettiva instaurazione di un rapporto di lavoro, in mancanza di elementi formali come la comunicazione obbligatoria al Ministero del Lavoro o all’INAIL e la sottoscrizione del contratto di soggiorno.

Richiamando precedenti del Consiglio di Stato (sent. n. 6979/2021) e dello stesso TAR Lazio (sent. n. 7458/2021), il Collegio ha chiarito che la “attesa occupazione” è un istituto giuridico che presuppone la perdita di un lavoro realmente esistente, non una mera promessa di assunzione. In altri termini, il permesso di soggiorno per attesa occupazione può essere rilasciato solo a chi ha perso un lavoro regolare, non a chi non lo ha mai iniziato.

La sentenza conferma un orientamento giurisprudenziale restrittivo verso le sanatorie fondate su rapporti di lavoro irregolari o solo annunciati. La procedura di emersione, precisa il TAR, non può essere usata per ottenere un titolo di soggiorno in assenza dei requisiti sostanziali previsti dalla legge.

In conclusione, il Tribunale ha respinto il ricorso e condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali.


In sintesi, per accedere al permesso di soggiorno per attesa occupazione occorre dimostrare un rapporto lavorativo effettivamente instaurato e cessato, come previsto dall’art. 22 del Testo Unico sull’Immigrazione (d.lgs. 286/1998). La semplice promessa di un impiego, anche se documentata, non basta a fondare il diritto al soggiorno.


Avv. Fabio Loscerbo

domenica 2 novembre 2025

Come richiedere la cancellazione di una segnalazione nel Sistema Schengen (SIS)

 

Come richiedere la cancellazione di una segnalazione nel Sistema Schengen (SIS)

di Avv. Fabio Loscerbo

Essere segnalati nel Sistema d’Informazione Schengen (SIS) può avere conseguenze concrete e spesso pesanti: dal rifiuto di un visto al divieto d’ingresso o di soggiorno in uno Stato dell’area Schengen. Ma pochi sanno che è possibile verificare l’esistenza dei propri dati e chiederne la cancellazione.

Il SIS è una banca dati comune a tutti i Paesi Schengen, gestita dall’Agenzia eu-LISA e utilizzata da autorità di polizia, dogane e frontiere. Le segnalazioni possono riguardare diversi motivi: ingresso irregolare, espulsioni, divieti di ritorno, mandati di arresto europei o persone scomparse.

Come sapere se si è segnalati

Chi teme di essere inserito nel SIS può esercitare il diritto di accesso ai propri dati.
In Italia, la richiesta va presentata al Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza, compilando il modulo disponibile sul sito della Polizia di Stato nella sezione “Come fare per sapere se nella banca dati Schengen esistono dati personali che ci riguardano”.
È necessario allegare un documento d’identità e indicare con precisione i propri dati anagrafici.
La risposta, in genere, arriva entro 30 giorni.

La richiesta di cancellazione

Se l’interessato scopre di essere segnalato, può chiedere la rettifica o la cancellazione dei dati.
La domanda deve essere motivata e presentata allo stesso Ministero dell’Interno, che valuta se la segnalazione sia ancora legittima o debba essere rimossa.
In caso di rigetto, è possibile proporre ricorso al Garante per la protezione dei dati personali oppure al giudice amministrativo (TAR).
Per segnalazioni inserite da altri Stati Schengen, la richiesta va inoltrata direttamente alle autorità competenti di quello Stato, spesso tramite ambasciata o consolato.

Un diritto europeo alla trasparenza

Il diritto di accedere, correggere o cancellare i propri dati nel SIS deriva direttamente dal Regolamento (UE) 2018/1862, che disciplina l’uso del sistema a fini di cooperazione di polizia e giudiziaria.
È un diritto fondamentale, collegato alla tutela della privacy e della libertà di circolazione.
Molte persone, come raccontato da Melting Pot Europa, riescono a ottenere la cancellazione quando la segnalazione è datata, ingiustificata o conseguente a errori procedurali.

Conclusione

Conoscere e far valere i propri diritti nel contesto del SIS è essenziale.
La segnalazione non è una condanna, ma un’informazione amministrativa che può e deve essere verificata.
Per questo è importante rivolgersi a un legale esperto in diritto dell’immigrazione e dell’Unione Europea, in grado di valutare ogni caso e agire nelle sedi opportune.

venerdì 31 ottobre 2025

Permesso di soggiorno speciale: il Tribunale di Bologna riconosce il diritto alla protezione per radicamento in Italia

 

Permesso di soggiorno speciale: il Tribunale di Bologna riconosce il diritto alla protezione per radicamento in Italia

Una nuova sentenza riafferma la centralità dell’integrazione come fondamento del diritto alla permanenza sul territorio nazionale.

Il Tribunale di Bologna, Sezione specializzata in materia di immigrazione e protezione internazionale, ha accolto il ricorso proposto da un cittadino marocchino contro il rigetto del permesso di soggiorno per protezione speciale emesso dalla Questura di Modena.
La decisione, adottata in data 24 ottobre 2025 (numero di ruolo generale 9812/2024), rappresenta un ulteriore tassello nella giurisprudenza favorevole al riconoscimento della protezione basata sul radicamento sociale e lavorativo.

Difeso dall’avv. Fabio Loscerbo, il ricorrente aveva dimostrato un percorso di integrazione solido e documentato: un impiego stabile come muratore, un reddito regolare di circa 1.500 euro mensili, la convivenza con un familiare regolarmente soggiornante e la partecipazione a corsi di lingua e formazione professionale.
Il Collegio, presieduto dal dott. Luca Minniti con giudice relatore la dott.ssa Emanuela Romano, ha ritenuto che tali elementi configurassero una piena vita privata e sociale ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dell’articolo 19, comma 1.1, del Testo Unico sull’Immigrazione nella versione antecedente al cosiddetto Decreto Cutro.

Richiamando la giurisprudenza della Corte di Cassazione (Sezioni Unite n. 24413/2021 e ordinanza n. 7861/2022), il Tribunale ha ribadito che la tutela della vita privata e familiare costituisce un limite al potere dello Stato di disporre l’allontanamento dello straniero.
Il diritto alla protezione speciale può derivare anche da un solo elemento di radicamento — familiare, sociale o lavorativo — purché effettivo e dimostrato.

In conclusione, il Tribunale ha disposto il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale della durata di due anni, rinnovabile e convertibile in permesso per motivi di lavoro.
Una decisione che valorizza l’integrazione come percorso reale, non formale, e riafferma il principio secondo cui chi contribuisce al tessuto sociale ed economico del Paese ha diritto a veder riconosciuta la propria stabilità giuridica.


✍️ Avv. Fabio Loscerbo
Studio legale in Bologna – Via Ermete Zacconi n. 3/A
www.avvocatofabioloscerbo.it

mercoledì 29 ottobre 2025

Decreto n. 149/2025 del Tribunale di Firenze: riequilibrio dei ruoli e continuità del Piano PNRR nella sezione immigrazione

 

Decreto n. 149/2025 del Tribunale di Firenze: riequilibrio dei ruoli e continuità del Piano PNRR nella sezione immigrazione

Il Tribunale di Firenze ha adottato in data 21 ottobre 2025 il Decreto n. 149/2025, con cui dispone il riequilibrio e la redistribuzione dei ruoli dei giudici della Quarta Sezione civile, competente in materia di protezione internazionale e immigrazione.
Il provvedimento, firmato dal Presidente del Tribunale, rappresenta un passaggio organizzativo significativo nell’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) in ambito giustizia.

L’intervento si è reso necessario a seguito dell’ingresso di tre nuovi magistrati – le dott.sse Michela Boi, Maria Giulia D’Ettore e Diana Genovese – e mira a riequilibrare il carico di lavoro in una sezione che, nel solo biennio 2023-2024, ha visto iscriversi oltre 3.500 procedimenti ex art. 35-bis del d.lgs. 25/2008, oltre a centinaia di ricorsi in materia di permessi di soggiorno e diritti connessi ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 150/2011.

Il decreto dispone in particolare:

  • la formazione dei ruoli per i nuovi giudici Boi e D’Ettore;

  • la redistribuzione omogenea dei procedimenti pendenti, con assegnazioni progressive dei fascicoli in base alla data di iscrizione e all’assenza di udienze già fissate;

  • la valorizzazione della produttività dei magistrati Castagnini e Sturiale, che hanno garantito alti indici di smaltimento dei procedimenti ex art. 35-bis;

  • l’immediata esecutività del provvedimento ai sensi degli artt. 40 e 41 della circolare tabellare del CSM del 26 giugno 2024, in ragione dell’urgenza di garantire la piena operatività della Sezione e il rispetto dei target del PNRR.

Il decreto, inoltre, esclude dalla redistribuzione i procedimenti riguardanti i diritti di cittadinanza, che saranno assegnati ad altri giudici civili del Tribunale nell’ambito del piano straordinario previsto dall’art. 4 del D.L. n. 117/2025.

L’atto sarà comunicato al Presidente della Corte d’Appello, al Consiglio Giudiziario, al Procuratore della Repubblica di Firenze, all’Ordine degli Avvocati di Firenze, e alla dirigenza amministrativa del settore civile.

Questo intervento tabellare conferma il ruolo del Tribunale di Firenze come uno dei centri giudiziari maggiormente impegnati nella gestione delle controversie in materia di immigrazione e protezione internazionale, non solo per il volume dei procedimenti, ma anche per l’attenzione posta all’equilibrio tra efficienza organizzativa e tutela dei diritti fondamentali.


Avv. Fabio Loscerbo

Il Tribunale di Bologna (R.G. 12832/2024) – Sentenza del 17 ottobre 2025: riconosciuta la protezione speciale a un lavoratore marocchino pienamente integrato in Italia

 Il Tribunale di Bologna (R.G. 12832/2024) – Sentenza del 17 ottobre 2025: riconosciuta la protezione speciale a un lavoratore marocchino pienamente integrato in Italia


Il Tribunale di Bologna, Sezione Specializzata in materia di Immigrazione, ha accolto il ricorso presentato contro la Questura di Ferrara, riconoscendo il diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale ai sensi dell’art. 19 del Testo Unico sull’Immigrazione.

La decisione, pronunciata il 17 ottobre 2025, si fonda su un principio chiaro: l’integrazione sociale, lavorativa e familiare maturata in Italia da oltre dieci anni non può essere annullata da un singolo episodio risalente nel tempo. Il richiedente, da anni residente in Emilia-Romagna, aveva costruito un percorso di vita stabile, lavorando come metalmeccanico, partecipando a corsi di formazione e condividendo con la moglie – titolare di permesso di lungo periodo – un’abitazione acquistata con mutuo congiunto.

Il Tribunale ha valorizzato la costanza lavorativa e l’autonomia economica e abitativa del ricorrente, riconoscendo in tali elementi il consolidamento di una “vita privata e familiare” protetta dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel provvedimento si evidenzia che il diritto al rispetto della vita privata e familiare, tutelato anche dall’art. 19, comma 1.1, del D.Lgs. 286/1998, può essere limitato solo per motivi di sicurezza nazionale o ordine pubblico.

Pur in presenza di un vecchio precedente penale del 2019, per il quale il ricorrente aveva già beneficiato della sospensione condizionale della pena, il Tribunale ha escluso qualsiasi pericolosità sociale, osservando che negli anni successivi non si erano verificate nuove condanne o procedimenti pendenti.

La sentenza richiama anche i principi affermati dalla Corte di Cassazione (Sezioni Unite n. 24413/2021 e Cass. n. 7861/2022), secondo cui la protezione speciale tutela non solo i legami familiari ma anche quelli lavorativi, affettivi e sociali che rendono unica la vita privata di una persona.

Rilevante anche il passaggio finale: il Tribunale ha confermato che, essendo la domanda presentata prima dell’entrata in vigore del cosiddetto “Decreto Cutro”, resta applicabile la disciplina previgente, la quale prevede che il permesso per protezione speciale abbia durata biennale, sia rinnovabile e convertibile in permesso di lavoro.

Un pronunciamento che riafferma il valore costituzionale dell’integrazione e la funzione equilibratrice della protezione speciale nel sistema italiano, chiamato a bilanciare l’interesse pubblico con i diritti fondamentali della persona.

Avv. Fabio Loscerbo

sabato 25 ottobre 2025

Il diritto alla coesione familiare non può essere negato


 

Il diritto alla coesione familiare non può essere negato

Il diritto alla coesione familiare garantisce ai familiari di cittadini italiani o europei di vivere insieme in Italia, senza che ostacoli burocratici o tecnici possano limitarlo.
È un diritto soggettivo pieno, tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che lo Stato ha l’obbligo di rendere effettivo.
Anche quando le piattaforme consolari non permettono l’invio della domanda, l’Amministrazione deve riceverla e valutarla.
In caso di silenzio, è possibile rivolgersi al Tribunale di Roma con ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per ottenere la fissazione dell’appuntamento e far valere il proprio diritto all’unità familiare.

Come chiedere un visto per coesione familiare con cittadino italiano

 

Come chiedere un visto per coesione familiare con cittadino italiano

(a cura dell’Avv. Fabio Loscerbo)

Il visto per coesione familiare è lo strumento che consente al familiare di un cittadino italiano o dell’Unione Europea di entrare in Italia per vivere stabilmente insieme al proprio congiunto.
Si fonda sull’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e sugli articoli 2, 3, 29 e 31 della Costituzione italiana, che tutelano il diritto all’unità familiare come diritto soggettivo inviolabile.
La disciplina è contenuta nel D.Lgs. 30/2007, che recepisce la direttiva 2004/38/CE.

1. A chi spetta

Il visto per coesione familiare è destinato ai familiari di cittadini italiani o europei che si trovano all’estero e intendono ricongiungersi in Italia.
Oltre al coniuge e ai figli minori, rientrano nella tutela anche gli altri familiari a carico, come genitori, fratelli o sorelle, purché sia dimostrata la dipendenza economica e la relazione affettiva e di sostegno stabile con il cittadino italiano.

2. Come presentare la domanda

La procedura può essere avviata direttamente dal cittadino italiano (o dal suo difensore) mediante istanza scritta di coesione familiare con contestuale richiesta di fissazione di appuntamento per rilascio del visto d’ingresso.
L’istanza deve essere indirizzata all’Ambasciata o Consolato italiano competente nel Paese di residenza del familiare e, per conoscenza, anche alla Prefettura e alla Questura italiane del luogo di residenza del cittadino richiedente.

L’invio può avvenire tramite posta elettronica certificata (PEC), allegando:

  • documento d’identità del cittadino italiano o UE;

  • certificato di residenza e stato di famiglia;

  • atti di nascita e attestati di legame parentale con Apostille;

  • attestazione di carico familiare e condizione di dipendenza economica;

  • prove di sostegno economico continuativo (rimesse, bonifici, dichiarazioni);

  • documentazione sull’idoneità abitativa e la disponibilità di reddito.

3. La prenotazione tramite portale VFS

Molti consolati italiani utilizzano il portale VFS Global per la gestione degli appuntamenti e la pre-verifica dei documenti.
Qualora il sistema non preveda una voce specifica per “altri familiari a carico”, è legittimo inviare la domanda direttamente via PEC, chiedendo che l’ufficio consolare provveda alla presa in carico manuale della richiesta.
La giurisprudenza nazionale ha chiarito che la modalità di presentazione non può mai diventare un ostacolo all’esercizio del diritto, e che l’amministrazione deve comunque istruire e decidere l’istanza in modo espresso e motivato.

4. In caso di silenzio o inerzia

Il mancato riscontro dell’amministrazione consolare o il semplice rinvio a siti informativi non costituiscono provvedimento valido.
Trascorso un tempo ragionevole senza risposta, la persona interessata può proporre ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. al Tribunale ordinario di Roma, unico competente per le controversie che coinvolgono rappresentanze diplomatiche italiane.
Il giudice ordinario, riconoscendo la natura di diritto soggettivo alla vita familiare, può ordinare all’amministrazione di fissare l’appuntamento o consentire la formalizzazione della domanda di visto, anche in via cautelare.

5. Documentazione essenziale

Per rafforzare la richiesta è opportuno predisporre un fascicolo completo che contenga:

  • certificati anagrafici aggiornati;

  • prova della convivenza o dell’assistenza economica continuativa;

  • attestazione dei redditi e della disponibilità abitativa in Italia;

  • dichiarazioni sostitutive dei familiari;

  • ogni elemento che provi la vulnerabilità o la dipendenza economica del richiedente.

6. Il principio giuridico

Il diritto alla coesione familiare non è una concessione amministrativa, ma un diritto soggettivo pienamente tutelato dall’ordinamento.
La pubblica amministrazione è obbligata a rendere effettivo l’esercizio di tale diritto, anche quando la modulistica o le piattaforme informatiche non risultano aggiornate.
L’ingresso per coesione familiare deve quindi essere facilitato e non ostacolato, in attuazione del principio di proporzionalità e della tutela effettiva della vita familiare sancita dalla CEDU e dal diritto dell’Unione Europea.


Avv. Fabio Loscerbo
Studio legale in Bologna – Via Ermete Zacconi 3/A
avv.loscerbo@ordineavvocatibopec.it

domenica 19 ottobre 2025

Il diritto del richiedente protezione internazionale e complementare ad aprire un conto corrente

 

Il diritto del richiedente protezione internazionale e complementare ad aprire un conto corrente

Aprire un conto corrente non è un privilegio, ma un diritto essenziale.
Per i richiedenti protezione internazionale e complementare, rappresenta il primo passo verso una piena inclusione sociale, lavorativa e amministrativa. Eppure, nonostante la normativa sia chiara, continuano a registrarsi casi di diniego da parte di alcuni uffici postali e istituti di credito, che dimostrano quanto il principio di uguaglianza fatichi ancora a tradursi in prassi operative.

1. Il quadro normativo: un diritto soggettivo riconosciuto

Il Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze n. 70/2018 ha istituito il cosiddetto conto di base, ossia un conto accessibile a chiunque risieda legalmente nell’Unione Europea, compresi i richiedenti protezione internazionale o complementare.
Il decreto, in attuazione della direttiva UE 2014/92, sancisce il diritto di ogni persona fisica — anche priva di reddito — ad accedere a un conto che garantisca i servizi bancari fondamentali (depositi, prelievi, pagamenti e accrediti).

Questo diritto ha natura soggettiva piena, e il suo esercizio non può essere limitato per ragioni di status o di nazionalità, purché il soggetto sia legalmente soggiornante in Italia.

2. Le istruzioni di Poste Italiane: apertura consentita anche con permesso provvisorio

Dal giugno 2019, a seguito della Circolare ABI del 19 aprile 2019, Poste Italiane S.p.A. ha disposto — tramite comunicazione interna — che i richiedenti protezione possano aprire un conto di base Bancoposta presentando anche il permesso di soggiorno provvisorio o la ricevuta di rinnovo rilasciata dalla Questura ai sensi del D.Lgs. 142/2015, come modificato dal D.L. 113/2018.

Le note ufficiali inviate a seguito di reclami gestiti dallo scrivente (protocolli PB-250109170/2025, PB-250521121/2025, PB-250201058/2025 e PB-250606324/2025) confermano che:

  • il permesso di soggiorno provvisorio per richiesta protezione internazionale o complementare è documento valido per l’identificazione e l’apertura del conto;

  • se il codice fiscale è riportato sul titolo, il documento può valere anche come attestazione fiscale;

  • il conto di base è sempre apribile, mentre carte prepagate o prodotti finanziari evoluti possono richiedere un titolo di soggiorno definitivo.

3. La protezione complementare: stesso diritto, diversa fonte

L’art. 19, commi 1 e 1.1, del D.Lgs. 286/1998 tutela lo straniero da qualsiasi forma di espulsione o respingimento che comporti una violazione dei diritti fondamentali della persona.
Chi gode di questa protezione complementare è, a tutti gli effetti, legalmente soggiornante e quindi titolare degli stessi diritti civili e sociali riconosciuti ai titolari di protezione internazionale, incluso il diritto di aprire un conto corrente.

In diversi casi seguiti dal sottoscritto, Poste Italiane ha riconosciuto la validità del permesso per protezione speciale o complementare ai fini dell’identificazione bancaria, confermando che anche tali titolari rientrano pienamente nell’ambito di applicazione del Decreto MEF 70/2018.

4. Quando il diniego è illegittimo e discriminatorio

Il rifiuto di aprire un conto a un richiedente protezione — internazionale o complementare — costituisce violazione di un diritto soggettivo.
Si tratta di un comportamento privo di base normativa e potenzialmente discriminatorio, poiché limita l’accesso ai servizi essenziali sulla base dello status giuridico del soggetto.

In questi casi il richiedente può:

  1. presentare reclamo scritto a Poste Italiane o alla banca interessata;

  2. ricorrere all’Arbitro Bancario Finanziario (ABF);

  3. segnalare la violazione alla Banca d’Italia, quale autorità di vigilanza.

5. Il conto come strumento di integrazione

Disporre di un conto corrente consente di ricevere lo stipendio, pagare l’affitto, accedere ai servizi sanitari e partecipare alla vita economica.
Negare questo diritto significa ostacolare l’integrazione e spingere le persone verso l’irregolarità.
L’accesso ai servizi bancari è quindi una forma di cittadinanza economica, complementare alla tutela giuridica ottenuta attraverso la protezione internazionale o complementare.

6. Conclusione

Il diritto del richiedente protezione internazionale o complementare ad aprire un conto corrente è pienamente riconosciuto dalla legge italiana e dalle direttive europee.
Le istituzioni e gli operatori finanziari hanno il dovere di renderlo effettivo, non solo per rispetto delle norme, ma come atto concreto di inclusione e giustizia sociale.
Garantire l’accesso a un conto significa garantire dignità, autonomia e legalità: tre pilastri indispensabili di una società che voglia davvero essere integrata.


Avv. Fabio Loscerbo

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