mercoledì 24 dicembre 2025

Protezione complementare, vita privata e limiti al potere di allontanamento: nota a Tribunale Ordinario di Bologna, sentenza 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025

 Protezione complementare, vita privata e limiti al potere di allontanamento: nota a Tribunale Ordinario di Bologna, sentenza 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025

Abstract
La sentenza del Tribunale Ordinario di Bologna del 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025, offre un contributo di particolare rilievo all’elaborazione giurisprudenziale in materia di protezione complementare ex articolo 19 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. La decisione chiarisce la portata del diritto al rispetto della vita privata e familiare quale limite sostanziale al potere amministrativo di diniego e di allontanamento, ribadendo la natura di diritto soggettivo della tutela quando risulti accertato un radicamento effettivo nel territorio nazionale. L’analisi si sofferma sui criteri di valutazione dell’integrazione, sul principio di proporzionalità e sul regime transitorio applicabile alle istanze presentate anteriormente all’entrata in vigore del decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20.


1. Inquadramento normativo della protezione complementare

La protezione complementare trova il proprio fondamento nell’articolo 19, commi 1 e 1.1, del Testo Unico Immigrazione, come riformulato dal decreto-legge 21 ottobre 2020, numero 130, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, numero 173. La norma ha ampliato in modo significativo l’area di tutela, ancorando il divieto di respingimento ed espulsione non soltanto al rischio di persecuzione o di trattamenti inumani o degradanti, ma anche alla salvaguardia del diritto al rispetto della vita privata e familiare, in coerenza con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In tale prospettiva, la protezione complementare si configura come strumento residuale ma autonomo, volto a intercettare situazioni in cui l’allontanamento forzato dal territorio nazionale determinerebbe una lesione sproporzionata dei diritti fondamentali della persona, pur in assenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.


2. Il caso deciso dal Tribunale Ordinario di Bologna

Con la sentenza in commento, il Tribunale Ordinario di Bologna è stato chiamato a valutare la legittimità di un diniego di protezione complementare fondato su un giudizio negativo circa il grado di integrazione sociale della richiedente, espresso dalla Commissione territoriale e recepito dall’autorità questorile.

Il Collegio ha ricostruito in modo analitico il percorso di vita della ricorrente, valorizzando elementi quali la lunga permanenza in Italia, la stabilità del nucleo familiare, la frequenza scolastica dei figli, l’attività lavorativa, seppur caratterizzata da discontinuità, e l’autonomia abitativa. Tali circostanze sono state considerate nel loro insieme, secondo una valutazione complessiva e non frammentaria, idonea a restituire la dimensione reale del radicamento maturato nel territorio nazionale.


3. Vita privata, integrazione e principio di proporzionalità

Uno dei profili più significativi della decisione risiede nell’interpretazione estensiva della nozione di vita privata, intesa come rete di relazioni sociali, affettive e professionali che concorrono a definire l’identità personale dell’individuo. In questa prospettiva, l’integrazione non viene concepita come un traguardo ideale o assoluto, bensì come un processo dinamico, dimostrabile attraverso ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà sociale italiana.

Il Tribunale richiama espressamente il principio di proporzionalità, evidenziando come l’interferenza dello Stato nella vita privata e familiare dello straniero possa ritenersi legittima soltanto in presenza di concrete e attuali esigenze di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. In mancanza di tali presupposti, l’allontanamento dal territorio nazionale si traduce in una compressione ingiustificata dei diritti fondamentali, incompatibile con l’articolo 8 CEDU e con la stessa ratio dell’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione.


4. Regime transitorio e disciplina applicabile

Particolarmente rilevante è il richiamo al regime transitorio previsto dall’articolo 7 del decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20, convertito dalla legge 5 maggio 2023, numero 50. Il Tribunale ribadisce che, per le istanze presentate prima dell’entrata in vigore del decreto, continua ad applicarsi la disciplina previgente, con conseguente riconoscimento di un permesso di soggiorno di durata biennale, rinnovabile e convertibile in permesso per motivi di lavoro.

Tale precisazione assume un valore sistematico, poiché contrasta prassi amministrative tese ad applicare retroattivamente la normativa più restrittiva, in violazione dei principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento.


5. Considerazioni conclusive

La sentenza del Tribunale Ordinario di Bologna del 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025, si inserisce in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e contribuisce a rafforzare l’idea della protezione complementare come diritto soggettivo pieno, azionabile in sede giurisdizionale. La decisione conferma che il giudizio sull’integrazione deve essere sostanziale e individualizzato e che l’Amministrazione non può limitarsi a valutazioni stereotipate o meramente formali.

La pubblicazione integrale della sentenza è disponibile al seguente link Calameo, utile per la consultazione e l’approfondimento del testo originale:
https://www.calameo.com/books/0080797751165099142b8

Avv. Fabio Loscerbo

lunedì 22 dicembre 2025

Il riconoscimento della protezione complementare tra integrazione sociale e tutela della vita privata: nota a Tribunale di Brescia, sentenza 15 dicembre 2025 (R.G. 4598/2025)

 Il riconoscimento della protezione complementare tra integrazione sociale e tutela della vita privata: nota a Tribunale di Brescia, sentenza 15 dicembre 2025 (R.G. 4598/2025)

La sentenza del Tribunale Ordinario di Brescia, Settima Sezione Civile, pronunciata all’esito della camera di consiglio del 15 dicembre 2025 nel procedimento R.G. 4598/2025, si inserisce nel dibattito giurisprudenziale relativo all’ambito applicativo della protezione complementare di cui all’art. 19 del d.lgs. 286/1998, offrendo un contributo di particolare interesse sotto il profilo della ricostruzione sistematica della disciplina e dei criteri valutativi rilevanti. Il testo integrale del provvedimento è pubblicato e consultabile al seguente indirizzo:
https://www.calameo.com/books/008079775a720c61ca034

Il Collegio affronta preliminarmente la questione della disciplina applicabile ratione temporis, chiarendo che, in presenza di una manifestazione di volontà anteriore all’11 marzo 2023, trova applicazione il testo dell’art. 19, comma 1.1, del Testo Unico Immigrazione nella formulazione introdotta dal d.l. 130/2020, convertito dalla legge 173/2020. Tale passaggio assume rilievo centrale, poiché consente al giudice di ricondurre la protezione complementare nell’alveo della tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare, secondo una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

La sentenza si sofferma in modo puntuale sulla natura giuridica della protezione complementare, qualificandola come forma di tutela autonoma e direttamente collegata agli obblighi derivanti dagli artt. 2 e 10 della Costituzione, nonché dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In tale prospettiva, il Tribunale prende posizione rispetto a letture restrittive che tendono a ridurre la protezione complementare a strumento residuale o eccezionale, riaffermandone invece la funzione di garanzia dei diritti fondamentali della persona straniera stabilmente inserita nel contesto sociale italiano.

Particolarmente significativa è l’analisi dei criteri di integrazione sociale e lavorativa. Il Collegio ribadisce che il livello di integrazione non deve essere valutato secondo parametri astratti o standardizzati, ma attraverso un accertamento concreto e individualizzato, fondato su elementi oggettivi quali la continuità dell’attività lavorativa, la stabilità abitativa e la durata del soggiorno sul territorio nazionale. L’integrazione viene così intesa come processo progressivo e dinamico, non come risultato definitivo o irreversibile, coerentemente con l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di tutela umanitaria e successivamente trasfusa nella protezione complementare.

Nel caso esaminato, il Tribunale ritiene che il rimpatrio del ricorrente, a fronte di un percorso di integrazione socio-lavorativa ampiamente documentato, determinerebbe una compressione sproporzionata del diritto alla vita privata, ponendosi in contrasto con gli obblighi di non respingimento derivanti dall’ordinamento interno e sovranazionale. Da ciò discende il riconoscimento del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per protezione complementare e la conseguente trasmissione degli atti all’autorità amministrativa competente per l’esecuzione del giudicato.

La decisione del Tribunale di Brescia si colloca, dunque, in una linea interpretativa che valorizza la dimensione sostanziale dell’integrazione e rafforza la tutela giurisdizionale del diritto al soggiorno nei casi in cui l’allontanamento dello straniero comporterebbe una lesione ingiustificata dei suoi diritti fondamentali. La pubblicazione integrale del provvedimento consente di apprezzarne appieno l’impianto argomentativo e ne fa un precedente di sicuro interesse per la riflessione dottrinale e per la prassi applicativa in materia di protezione complementare.

Avv. Fabio Loscerbo

domenica 21 dicembre 2025

Protezione complementare, vita privata e limiti al potere di allontanamento: nota a Tribunale Ordinario di Bologna, sentenza 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025

 Protezione complementare, vita privata e limiti al potere di allontanamento: nota a Tribunale Ordinario di Bologna, sentenza 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025

Abstract
La sentenza del Tribunale Ordinario di Bologna del 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025, offre un contributo di particolare rilievo all’elaborazione giurisprudenziale in materia di protezione complementare ex articolo 19 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. La decisione chiarisce la portata del diritto al rispetto della vita privata e familiare quale limite sostanziale al potere amministrativo di diniego e di allontanamento, ribadendo la natura di diritto soggettivo della tutela quando risulti accertato un radicamento effettivo nel territorio nazionale. L’analisi si sofferma sui criteri di valutazione dell’integrazione, sul principio di proporzionalità e sul regime transitorio applicabile alle istanze presentate anteriormente all’entrata in vigore del decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20.


1. Inquadramento normativo della protezione complementare

La protezione complementare trova il proprio fondamento nell’articolo 19, commi 1 e 1.1, del Testo Unico Immigrazione, come riformulato dal decreto-legge 21 ottobre 2020, numero 130, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, numero 173. La norma ha ampliato in modo significativo l’area di tutela, ancorando il divieto di respingimento ed espulsione non soltanto al rischio di persecuzione o di trattamenti inumani o degradanti, ma anche alla salvaguardia del diritto al rispetto della vita privata e familiare, in coerenza con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

In tale prospettiva, la protezione complementare si configura come strumento residuale ma autonomo, volto a intercettare situazioni in cui l’allontanamento forzato dal territorio nazionale determinerebbe una lesione sproporzionata dei diritti fondamentali della persona, pur in assenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.


2. Il caso deciso dal Tribunale Ordinario di Bologna

Con la sentenza in commento, il Tribunale Ordinario di Bologna è stato chiamato a valutare la legittimità di un diniego di protezione complementare fondato su un giudizio negativo circa il grado di integrazione sociale della richiedente, espresso dalla Commissione territoriale e recepito dall’autorità questorile.

Il Collegio ha ricostruito in modo analitico il percorso di vita della ricorrente, valorizzando elementi quali la lunga permanenza in Italia, la stabilità del nucleo familiare, la frequenza scolastica dei figli, l’attività lavorativa, seppur caratterizzata da discontinuità, e l’autonomia abitativa. Tali circostanze sono state considerate nel loro insieme, secondo una valutazione complessiva e non frammentaria, idonea a restituire la dimensione reale del radicamento maturato nel territorio nazionale.


3. Vita privata, integrazione e principio di proporzionalità

Uno dei profili più significativi della decisione risiede nell’interpretazione estensiva della nozione di vita privata, intesa come rete di relazioni sociali, affettive e professionali che concorrono a definire l’identità personale dell’individuo. In questa prospettiva, l’integrazione non viene concepita come un traguardo ideale o assoluto, bensì come un processo dinamico, dimostrabile attraverso ogni apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà sociale italiana.

Il Tribunale richiama espressamente il principio di proporzionalità, evidenziando come l’interferenza dello Stato nella vita privata e familiare dello straniero possa ritenersi legittima soltanto in presenza di concrete e attuali esigenze di sicurezza nazionale o di ordine pubblico. In mancanza di tali presupposti, l’allontanamento dal territorio nazionale si traduce in una compressione ingiustificata dei diritti fondamentali, incompatibile con l’articolo 8 CEDU e con la stessa ratio dell’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione.


4. Regime transitorio e disciplina applicabile

Particolarmente rilevante è il richiamo al regime transitorio previsto dall’articolo 7 del decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20, convertito dalla legge 5 maggio 2023, numero 50. Il Tribunale ribadisce che, per le istanze presentate prima dell’entrata in vigore del decreto, continua ad applicarsi la disciplina previgente, con conseguente riconoscimento di un permesso di soggiorno di durata biennale, rinnovabile e convertibile in permesso per motivi di lavoro.

Tale precisazione assume un valore sistematico, poiché contrasta prassi amministrative tese ad applicare retroattivamente la normativa più restrittiva, in violazione dei principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento.


5. Considerazioni conclusive

La sentenza del Tribunale Ordinario di Bologna del 12 dicembre 2025, ruolo generale 13822 del 2025, si inserisce in un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e contribuisce a rafforzare l’idea della protezione complementare come diritto soggettivo pieno, azionabile in sede giurisdizionale. La decisione conferma che il giudizio sull’integrazione deve essere sostanziale e individualizzato e che l’Amministrazione non può limitarsi a valutazioni stereotipate o meramente formali.

La pubblicazione integrale della sentenza è disponibile al seguente link Calameo, utile per la consultazione e l’approfondimento del testo originale:
https://www.calameo.com/books/0080797751165099142b8

Avv. Fabio Loscerbo

Protezione complementare, diritto d’asilo costituzionale e tutela della vita privata e familiare dopo il d.l. 20/2023: note a margine di un decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024)

 TEMA

Protezione complementare, diritto d’asilo costituzionale e tutela della vita privata e familiare dopo il d.l. 20/2023: note a margine di un decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024)


Abstract
Il contributo analizza un recente decreto del Tribunale di Bologna, emesso il 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024), che riconosce il diritto al permesso di soggiorno per protezione speciale ai sensi dell’art. 19 del d.lgs. 286/1998. La decisione si colloca nel dibattito aperto dalle modifiche introdotte dal decreto-legge 10 marzo 2023, numero 20, convertito dalla legge 5 maggio 2023, numero 50, e offre una ricostruzione sistematica della protezione complementare quale espressione del diritto d’asilo costituzionalmente garantito. Particolare attenzione è dedicata al ruolo della vita privata e familiare, alla funzione del giudizio comparativo e al rapporto tra obblighi costituzionali e fonti convenzionali, alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione.


1. Inquadramento normativo della protezione complementare dopo il 2023

La riforma del 2023 ha inciso profondamente sull’assetto dell’art. 19 del Testo Unico Immigrazione, abrogando i periodi che, nella formulazione introdotta nel 2020, tipizzavano espressamente i criteri relativi alla vita privata e familiare. Ciò ha alimentato, nella prassi amministrativa, l’idea di un ridimensionamento della protezione speciale, ridotta a clausola residuale di non-refoulement in senso stretto.

Il decreto in commento prende posizione in modo netto contro tale impostazione, ricostruendo la disciplina vigente come un ritorno, sul piano sistematico, al quadro anteriore al 2020, nel quale la protezione umanitaria – oggi protezione complementare – trovava fondamento diretto negli obblighi costituzionali e internazionali richiamati dall’art. 5, comma 6, e dall’art. 19 del d.lgs. 286/1998. La soppressione di singoli indici normativi non comporta, secondo il Tribunale, l’eliminazione del diritto sostanziale alla tutela, che continua a operare quale limite invalicabile ai provvedimenti di allontanamento.


2. Protezione complementare e diritto d’asilo costituzionale

Uno degli aspetti di maggiore interesse del decreto è il collegamento esplicito tra protezione complementare e diritto d’asilo di cui all’art. 10, terzo comma, della Costituzione. Il Tribunale chiarisce che la protezione speciale non rappresenta una concessione discrezionale dell’amministrazione, bensì una forma di attuazione del diritto d’asilo in senso costituzionale, inteso come diritto fondamentale a uno standard minimo di dignità della vita.

In questa prospettiva, la protezione complementare assume una portata più ampia rispetto agli obblighi minimi derivanti dal diritto dell’Unione europea o dalla sola Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il richiamo agli obblighi costituzionali consente all’ordinamento interno di assicurare un livello di tutela rafforzato, non comprimibile attraverso interpretazioni restrittive fondate esclusivamente su parametri sovranazionali più limitativi.


3. Vita privata e familiare come parametro centrale di tutela

Il decreto dedica un’ampia parte della motivazione alla tutela della vita privata e familiare, richiamando l’art. 8 CEDU e il suo radicamento negli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione. La vita privata non viene intesa in senso statico o meramente familiare, ma come insieme delle relazioni sociali, lavorative e affettive attraverso cui la persona sviluppa la propria identità.

Il Tribunale sottolinea come l’integrazione non possa essere ridotta al solo dato occupazionale, pur rilevante, ma debba essere valutata nella sua dimensione complessiva e concreta. L’allontanamento forzato di uno straniero che abbia radicato in Italia la propria vita privata comporta un rischio di vulnerabilità qualificata, suscettibile di integrare una lesione dei diritti fondamentali, anche in assenza di persecuzioni o trattamenti inumani nel Paese di origine.


4. Il giudizio comparativo e il principio di proporzionalità

Elemento cardine della decisione è il giudizio comparativo tra la situazione nel Paese di origine e il percorso di integrazione realizzato in Italia. Il Tribunale si colloca nel solco della giurisprudenza di legittimità che richiede una valutazione caso per caso, fondata su elementi concreti e attuali, e orientata al bilanciamento tra l’interesse pubblico all’allontanamento e la tutela dei diritti fondamentali della persona.

In linea con gli arresti più recenti della Corte di cassazione, viene ribadito che non è necessario un percorso di integrazione “compiuto” o definitivo: è sufficiente che emergano segni univoci e seri di un radicamento effettivo, tali da rendere sproporzionato l’allontanamento. La comparazione attenuata diviene così lo strumento attraverso cui il giudice verifica se il rimpatrio determinerebbe un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e familiare, tale da incidere sul nucleo essenziale della dignità umana.


5. Ricadute sistematiche e prospettive applicative

Il decreto del Tribunale di Bologna offre un contributo di particolare rilevanza per la prassi giudiziaria e amministrativa. Esso chiarisce che la riforma del 2023 non ha svuotato di contenuto la protezione complementare, ma ha riaffidato alla giurisprudenza il compito di ricostruirne i parametri alla luce dei principi costituzionali e convenzionali.

Ne deriva un modello di protezione non automatica, ma rigorosa, nel quale l’integrazione sociale assume valore giuridico pieno e la vita privata e familiare diviene il fulcro del bilanciamento. In un contesto segnato da tensioni tra esigenze di controllo dei flussi migratori e tutela dei diritti fondamentali, la decisione in esame riafferma il ruolo del giudice quale garante ultimo della dignità della persona straniera.


Riferimento alla pubblicazione
Il testo integrale del decreto del Tribunale di Bologna del 12 dicembre 2025 (ruolo generale 8151 del 2024) è consultabile nella versione pubblicata su Calameo al seguente indirizzo:
https://www.calameo.com/books/0080797751346a938fdea


Avv. Fabio Loscerbo

giovedì 18 dicembre 2025

La protezione complementare tra tipizzazione normativa e valutazione giudiziale del caso concreto



La protezione complementare tra tipizzazione normativa e valutazione giudiziale del caso concreto

La ricostruzione secondo cui l’eliminazione del permesso per motivi umanitari prima, e la successiva rimodulazione del permesso per protezione speciale poi, avrebbero determinato una restrizione dell’area di tutela riconducibile al diritto di asilo non è condivisibile sotto il profilo sistematico. Tale impostazione muove da una lettura meramente nominalistica delle categorie di soggiorno, confondendo il piano delle figure amministrative tipizzate con quello, ben più ampio e sovraordinato, della protezione complementare quale forma di attuazione del diritto di asilo costituzionale e convenzionale.

Occorre, al contrario, distinguere nettamente tra il genus della protezione complementare e le species che, nel tempo, il legislatore ordinario ha introdotto per darvi attuazione. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari, prima, e il permesso per protezione speciale, poi, non hanno mai esaurito il contenuto del diritto di asilo, ma ne hanno rappresentato esclusivamente modalità contingenti di concretizzazione amministrativa.

In questa prospettiva, l’intervento normativo non va letto in termini di progressiva “chiusura” del sistema, bensì come un mutamento della tecnica di regolazione: dal tentativo di tipizzare le ipotesi di tutela a una progressiva destipizzazione, che ha avuto come effetto – anche se non sempre dichiarato – quello di restituire centralità alla valutazione giudiziale del caso concreto.

La fase della tipizzazione: l’art. 19 TUI nella formulazione post-2020

La formulazione dell’art. 19 del d.lgs. 286/1998 introdotta con la riforma del 2020 costituisce un esempio paradigmatico di norma a struttura semi-chiusa. Essa richiedeva al giudice l’accertamento di “fondati motivi di ritenere” che l’allontanamento dal territorio nazionale comportasse una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, prevedendo contestualmente un espresso bilanciamento con esigenze di sicurezza nazionale, ordine e sicurezza pubblica, nonché un richiamo formale alle fonti sovranazionali di riferimento.

Si trattava, sotto il profilo tecnico, di una fattispecie articolata, che delimitava il perimetro dello scrutinio giudiziale attraverso una griglia di parametri predeterminati. Il giudice era chiamato a verificare la ricorrenza di quegli specifici presupposti, operando all’interno di un quadro normativo che, pur ampio, rimaneva strutturato e guidato dal legislatore.

In tale assetto, la tutela non era rimessa a una valutazione libera del diritto di asilo in quanto tale, ma passava attraverso il filtro di una specifica figura di permesso di soggiorno, con il rischio – non teorico – che la mancanza di uno dei parametri espressamente indicati potesse condurre a un esito negativo, anche in presenza di situazioni di vulnerabilità costituzionalmente rilevanti.

La destipizzazione e il recupero della centralità del giudice

La successiva eliminazione di quella parte dell’art. 19 non ha determinato la scomparsa della protezione sostanziale, ma la rimozione della sua tipizzazione legislativa. Venendo meno l’elenco dei presupposti e la struttura analitica della fattispecie, il giudice non è più chiamato a verificare l’inquadrabilità del caso in una specifica figura amministrativa, bensì a valutare direttamente la compatibilità dell’allontanamento con il complesso degli obblighi costituzionali e convenzionali gravanti sullo Stato.

Si assiste, in tal modo, a un passaggio da una tutela “mediata” dalla norma tipizzante a una tutela “diretta”, ancorata immediatamente ai principi del non-refoulement, alla salvaguardia dei diritti fondamentali e al contenuto essenziale del diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost.

Contrariamente a quanto spesso sostenuto, questa evoluzione non comporta una restrizione della tutela, ma un ampliamento dello spazio valutativo del giudice, il quale non è più vincolato a una fattispecie chiusa o semi-chiusa, ma può – e deve – procedere a una valutazione individualizzata, complessiva e concreta della situazione del singolo.

Il parallelismo con l’abolizione del permesso per motivi umanitari

Il medesimo schema si era già manifestato con l’eliminazione del permesso per motivi umanitari. Anche in quel caso, la soppressione di una specifica categoria di soggiorno era stata letta, in una prima fase, come una drastica compressione del diritto di asilo. In realtà, l’effetto sistemico è stato quello di spostare il fulcro della tutela dal nomen iuris del permesso alla verifica sostanziale delle condizioni di vulnerabilità.

Privato di una etichetta normativa precostituita, il giudice è stato chiamato a interrogarsi non più sulla riconducibilità del caso a una figura tipica, ma sulla legittimità costituzionale e convenzionale dell’allontanamento in concreto. Ancora una volta, la caduta della species non ha comportato l’estinzione del genus, ma ha reso più evidente la sua autonomia concettuale.

Protezione complementare come categoria aperta

La protezione complementare si configura, pertanto, come un’area di tutela strutturalmente aperta, che non può essere compressa o eliminata per via terminologica. Essa non coincide con una singola forma di permesso di soggiorno, ma rappresenta il contenitore giuridico entro cui si collocano tutte le ipotesi in cui l’allontanamento dello straniero risulterebbe incompatibile con i diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento.

In questa prospettiva, il venir meno di una tipizzazione normativa non riduce la protezione, ma ne riafferma la natura primaria e sovraordinata, sottraendola al rischio di una eccessiva amministrativizzazione e riaffidandola alla funzione propria del giudice quale garante ultimo dei diritti.

Considerazioni conclusive

La tesi secondo cui il Decreto Salvini e le successive riforme avrebbero progressivamente ristretto l’area del diritto di asilo si fonda, dunque, su una lettura formalistica e non sistematica. Il legislatore ha inciso sulle modalità di attuazione amministrativa, non sull’esistenza del diritto. Anzi, la progressiva destipizzazione ha finito per rafforzare il ruolo del giudice e per rendere ancora più evidente che la protezione complementare non è una concessione discrezionale, ma un obbligo giuridico che discende direttamente dalle fonti supreme dell’ordinamento.

In definitiva, il permesso per motivi umanitari prima e il permesso per protezione speciale poi devono essere correttamente intesi come specie contingenti di una categoria permanente. Quando le specie mutano o vengono eliminate, il diritto resta, e continua a imporsi all’interprete come parametro imprescindibile di legittimità dell’azione amministrativa.

martedì 16 dicembre 2025

La protezione complementare nel regime successivo al D.L. 20/2023: continuità della tutela della vita privata ex art. 8 CEDU e funzione dell’art. 5, comma 6, TUI

 

La protezione complementare nel regime successivo al D.L. 20/2023: continuità della tutela della vita privata ex art. 8 CEDU e funzione dell’art. 5, comma 6, TUI

Con riferimento alla pubblicazione integrale del decreto disponibile su Calameo:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae

Premessa

Il presente contributo analizza il decreto del Tribunale ordinario di Bologna, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, emesso in data 5 dicembre 2025 nel procedimento R.G. 10860/2024. Il provvedimento affronta in modo articolato la disciplina della protezione complementare nel quadro normativo risultante dalle modifiche introdotte dal D.L. 20/2023, convertito con modificazioni dalla legge 50/2023.

La decisione assume particolare rilievo poiché interviene su una delle questioni più controverse del nuovo assetto normativo: la sorte della tutela della vita privata e familiare dopo l’abrogazione dei parametri espressamente previsti dall’art. 19, comma 1.1, del d.lgs. 286/1998 nella sua formulazione previgente.

Il testo integrale del decreto è consultabile alla seguente pubblicazione:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae

La riforma del 2023 e la permanenza della tutela convenzionale

Il Tribunale chiarisce che l’intervento del legislatore del 2023 non ha inciso sul nucleo essenziale del divieto di refoulement né ha determinato l’eliminazione della tutela della vita privata e familiare quale fondamento della protezione complementare, in quanto diritto soggettivo ancorato a obblighi costituzionali e internazionali.

La motivazione valorizza il richiamo, tuttora presente nell’art. 19 del Testo unico sull’immigrazione, all’art. 5, comma 6, del medesimo testo normativo, quale norma di chiusura del sistema e veicolo di integrazione degli obblighi derivanti dalla CEDU. In questa prospettiva, l’abrogazione dei criteri legali tipizzati non equivale alla soppressione della tutela, ma comporta il superamento di una disciplina rigida a favore di una clausola elastica.

La protezione complementare e il ruolo della giurisprudenza di legittimità

La decisione si inserisce consapevolmente nel solco tracciato dalla più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha ribadito come la protezione complementare continui a operare anche in relazione alla vita privata e familiare dello straniero, in quanto espressione di obblighi sovraordinati rispetto alla legislazione ordinaria.

Il Tribunale recepisce l’impostazione secondo cui la riforma del 2023 ha inciso sulla tipicità normativa dell’istituto, ma non sulla sua funzione di tutela dei diritti fondamentali, riaffermando il ruolo del giudice nel ricostruire il contenuto della protezione complementare attraverso il bilanciamento degli interessi in gioco.

L’integrazione lavorativa come dimensione della vita privata

Nel caso esaminato, la protezione complementare viene riconosciuta sulla base della dimostrata esistenza di una vita privata radicata sul territorio nazionale. Il Tribunale attribuisce rilievo centrale alla stabilità lavorativa e reddituale del richiedente, richiamando espressamente l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui l’attività lavorativa costituisce uno degli spazi principali di sviluppo delle relazioni sociali e personali.

Il lavoro viene così considerato non come mero indicatore economico, ma come elemento strutturale della vita privata tutelata dall’art. 8 CEDU, coerentemente con l’evoluzione giurisprudenziale europea e nazionale in materia di protezione complementare.

Bilanciamento e limiti della protezione complementare

La pronuncia ribadisce che la protezione complementare non configura un diritto automatico né uno strumento di regolarizzazione generalizzata. Resta imprescindibile il bilanciamento con le esigenze di sicurezza nazionale e di ordine pubblico, secondo criteri di proporzionalità e ragionevolezza.

La tutela opera, dunque, solo in presenza di un radicamento effettivo e significativo e in assenza di elementi ostativi prevalenti, confermando una concezione rigorosa e non espansiva dell’istituto.

Considerazioni conclusive

Il decreto del Tribunale di Bologna del 5 dicembre 2025 rappresenta un contributo di particolare rilievo alla ricostruzione dell’istituto della protezione complementare nel periodo successivo al D.L. 20/2023. La decisione conferma che la riforma non ha svuotato l’istituto, ma ne ha ridefinito la tecnica applicativa, restituendo centralità al giudizio concreto e al bilanciamento dei diritti fondamentali.

La pubblicazione integrale del provvedimento consente di apprezzare una motivazione ampia e sistematica, idonea a costituire un punto di riferimento per la prassi giudiziaria e per il dibattito dottrinale.

Testo integrale del decreto disponibile su Calameo:
https://www.calameo.com/books/008079775ebab26d3b1ae


Avv. Fabio Loscerbo

domenica 14 dicembre 2025

Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

 Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato


La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Sezione Prima, numero 01561 del 2025, depositata nel dicembre 2025, offre l’occasione per tornare su un tema centrale e tutt’altro che pacifico nel diritto dell’immigrazione: l’incidenza delle condanne penali in materia di stupefacenti sulla possibilità di ottenere il rinnovo o la conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato.

Il provvedimento, pubblicato integralmente e consultabile al seguente link
https://www.calameo.com/books/0080797757982a2aef314
si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ma ne chiarisce con particolare nettezza i confini applicativi, distinguendo tra ipotesi di automatismo ostativo e residui spazi di valutazione discrezionale in capo all’amministrazione.

La controversia trae origine dal diniego opposto dalla Questura a una istanza di rinnovo e conversione di un permesso di soggiorno per motivi familiari in permesso per lavoro subordinato. Il diniego era fondato sull’esistenza di una condanna definitiva per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, pronunciata ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis, del DPR 309 del 90. La difesa aveva contestato l’automatismo applicato dall’amministrazione, invocando una valutazione complessiva della situazione personale, lavorativa e sociale dell’interessato.

Il TAR chiarisce preliminarmente il corretto inquadramento normativo della fattispecie, escludendo l’applicabilità dell’articolo 9 del Testo Unico Immigrazione, relativo al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, e riconducendo il caso agli articoli 4, comma 3, e 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. In tale ambito, la condanna per reati inerenti gli stupefacenti, nelle forme più gravi previste dalla legge, integra una causa ostativa automatica al rilascio e alla conversione del permesso di soggiorno per lavoro.

La sentenza ribadisce che, in presenza di tali condanne, non assumono rilievo né la sospensione condizionale della pena, né la concessione di attenuanti, né il tempo trascorso dalla commissione del fatto. L’amministrazione, in questi casi, non dispone di un potere valutativo pieno, ma è vincolata al diniego del titolo di soggiorno richiesto.

Un passaggio centrale della decisione riguarda tuttavia l’unica eccezione a tale automatismo: la presenza di legami familiari effettivi e attuali con soggetti regolarmente residenti in Italia. Solo in presenza di una reale unità familiare, dimostrata in modo concreto e non meramente formale, l’articolo 5, comma 5, del Testo Unico Immigrazione impone all’amministrazione una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico alla sicurezza e la tutela della vita familiare, anche alla luce dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nel caso esaminato, il TAR ritiene che tale presupposto non fosse integrato, evidenziando l’assenza di una convivenza effettiva e la mancata dimostrazione di un nucleo familiare attuale. Ne deriva, coerentemente, la conferma del carattere vincolato del diniego.

La decisione si presta a una riflessione più ampia sul rapporto tra integrazione sociale e automatismi normativi nel diritto dell’immigrazione. Molti stranieri confidano nel fatto che una condanna ormai “scontata” o risalente nel tempo non incida più sul loro percorso amministrativo. La sentenza in commento dimostra invece come, almeno in materia di permesso di soggiorno per lavoro subordinato, alcune condanne continuino a operare come barriere giuridiche difficilmente superabili, indipendentemente dal successivo inserimento lavorativo o sociale.

In questo senso, il provvedimento del TAR Emilia-Romagna rappresenta un punto fermo sullo stato attuale del diritto vivente, offrendo agli operatori del settore un quadro chiaro dei limiti entro i quali può essere utilmente invocata la valutazione discrezionale dell’amministrazione e, al contempo, dei casi in cui tale valutazione risulta giuridicamente preclusa.


Podcast collegati alla sentenza


Avv. Fabio Loscerbo

Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

 Condanne per stupefacenti e conversione del permesso di soggiorno per lavoro: il perimetro del diniego vincolato

La sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia-Romagna, Sezione Prima, numero 01561 del 2025, depositata nel dicembre 2025, offre l’occasione per tornare su un tema centrale e tutt’altro che pacifico nel diritto dell’immigrazione: l’incidenza delle condanne penali in materia di stupefacenti sulla possibilità di ottenere il rinnovo o la conversione del permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato.

Il provvedimento, pubblicato integralmente e consultabile al seguente link
https://www.calameo.com/books/0080797757982a2aef314
si colloca nel solco di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, ma ne chiarisce con particolare nettezza i confini applicativi, distinguendo tra ipotesi di automatismo ostativo e residui spazi di valutazione discrezionale in capo all’amministrazione.

La controversia trae origine dal diniego opposto dalla Questura a una istanza di rinnovo e conversione di un permesso di soggiorno per motivi familiari in permesso per lavoro subordinato. Il diniego era fondato sull’esistenza di una condanna definitiva per detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, pronunciata ai sensi dell’articolo 73, comma 1-bis, del DPR 309 del 90. La difesa aveva contestato l’automatismo applicato dall’amministrazione, invocando una valutazione complessiva della situazione personale, lavorativa e sociale dell’interessato.

Il TAR chiarisce preliminarmente il corretto inquadramento normativo della fattispecie, escludendo l’applicabilità dell’articolo 9 del Testo Unico Immigrazione, relativo al permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, e riconducendo il caso agli articoli 4, comma 3, e 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286. In tale ambito, la condanna per reati inerenti gli stupefacenti, nelle forme più gravi previste dalla legge, integra una causa ostativa automatica al rilascio e alla conversione del permesso di soggiorno per lavoro.

La sentenza ribadisce che, in presenza di tali condanne, non assumono rilievo né la sospensione condizionale della pena, né la concessione di attenuanti, né il tempo trascorso dalla commissione del fatto. L’amministrazione, in questi casi, non dispone di un potere valutativo pieno, ma è vincolata al diniego del titolo di soggiorno richiesto.

Un passaggio centrale della decisione riguarda tuttavia l’unica eccezione a tale automatismo: la presenza di legami familiari effettivi e attuali con soggetti regolarmente residenti in Italia. Solo in presenza di una reale unità familiare, dimostrata in modo concreto e non meramente formale, l’articolo 5, comma 5, del Testo Unico Immigrazione impone all’amministrazione una valutazione comparativa tra l’interesse pubblico alla sicurezza e la tutela della vita familiare, anche alla luce dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Nel caso esaminato, il TAR ritiene che tale presupposto non fosse integrato, evidenziando l’assenza di una convivenza effettiva e la mancata dimostrazione di un nucleo familiare attuale. Ne deriva, coerentemente, la conferma del carattere vincolato del diniego.

La decisione si presta a una riflessione più ampia sul rapporto tra integrazione sociale e automatismi normativi nel diritto dell’immigrazione. Molti stranieri confidano nel fatto che una condanna ormai “scontata” o risalente nel tempo non incida più sul loro percorso amministrativo. La sentenza in commento dimostra invece come, almeno in materia di permesso di soggiorno per lavoro subordinato, alcune condanne continuino a operare come barriere giuridiche difficilmente superabili, indipendentemente dal successivo inserimento lavorativo o sociale.

In questo senso, il provvedimento del TAR Emilia-Romagna rappresenta un punto fermo sullo stato attuale del diritto vivente, offrendo agli operatori del settore un quadro chiaro dei limiti entro i quali può essere utilmente invocata la valutazione discrezionale dell’amministrazione e, al contempo, dei casi in cui tale valutazione risulta giuridicamente preclusa.


Podcast collegati alla sentenza


Avv. Fabio Loscerbo

sabato 13 dicembre 2025

 Il diritto penale è, per definizione, extrema ratio. Anche quando si confronta con l’immigrazione e il diritto di asilo.

venerdì 12 dicembre 2025

La denuncia alla Commissione europea per presunta violazione del diritto dell’Unione: natura, limiti e funzione sistemica

 

La denuncia alla Commissione europea per presunta violazione del diritto dell’Unione: natura, limiti e funzione sistemica

Abstract

La procedura di denuncia alla Commissione europea costituisce uno strumento di garanzia dell’ordinamento unionale, finalizzato a segnalare eventuali violazioni del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri. Pur essendo accessibile a chiunque, essa non rappresenta un rimedio individuale e non offre una tutela diretta rispetto a casi isolati. L’analisi dei documenti ufficiali pubblicati su Calameo, disponibili ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6, consente di comprendere il funzionamento interno di questa procedura, i criteri valutativi della Commissione e i limiti strutturali che delimitano il suo raggio d’azione.

1. La natura della denuncia nel sistema del diritto dell’Unione

La denuncia presentata alla Commissione europea trova il suo fondamento nell’articolo 17 del Trattato sull’Unione europea, che attribuisce all’istituzione il ruolo di custode dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione. Il primo documento pubblicato su Calameo (https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22) chiarisce che la registrazione della denuncia rappresenta soltanto l’avvio di una valutazione amministrativa preliminare, nel corso della quale la Commissione esamina la pertinenza della questione rispetto all’interesse generale dell’Unione. L’atto evidenzia come il denunciante non acquisisca alcun diritto soggettivo alla prosecuzione del procedimento, poiché la funzione della Commissione non è quella di risolvere controversie individuali, ma di individuare eventuali criticità sistemiche nella legislazione o nelle prassi amministrative degli Stati membri.

2. I presupposti per l’intervento della Commissione

La Commissione procede alla fase successiva della procedura solo quando la denuncia presenta elementi idonei a dimostrare una violazione strutturale del diritto europeo. Il secondo documento, pubblicato al link https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6, illustra con chiarezza tale criterio, specificando che l’istituzione può intervenire esclusivamente laddove emergano pratiche amministrative caratterizzate da generalità, costanza e documentazione adeguata. Questo principio, più volte ribadito anche dalla giurisprudenza dell’Unione, impedisce alla Commissione di assumere un ruolo sostitutivo rispetto alle autorità amministrative o giurisdizionali nazionali. In assenza di tali presupposti, l’istituzione invita il denunciante a utilizzare i rimedi interni previsti dall’ordinamento dello Stato membro, che restano lo strumento più diretto ed effettivo per ottenere tutela nel caso concreto.

3. La funzione del preavviso di archiviazione

Il preavviso di archiviazione rappresenta una fase fisiologica della procedura. Attraverso questa comunicazione la Commissione manifesta l’intenzione di chiudere il fascicolo, salvo la presentazione di nuovi elementi che possano modificare la valutazione iniziale. Tale fase, descritta nei documenti pubblicati, svolge un ruolo essenziale nella garanzia partecipativa del denunciante, poiché consente di integrare informazioni rilevanti o chiarire aspetti che non erano stati evidenziati nella prima valutazione. La logica che guida la Commissione rimane comunque orientata alla verifica dell’esistenza di un interesse europeo generale, distinto dalla tutela della posizione sostanziale del singolo.

4. Il rapporto tra denuncia europea e rimedi nazionali

La lettura congiunta dei documenti ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6 evidenzia con nettezza che la denuncia non sospende i termini per la proposizione di ricorsi nazionali e non può sostituire gli strumenti di tutela predisposti dall’ordinamento interno. La Commissione chiarisce che la sua eventuale iniziativa ha natura sistemica e non è rivolta a ottenere un risultato immediato sul caso individuale. Questa distinzione è fondamentale poiché consente di comprendere il corretto impiego della procedura: essa non è pensata come rimedio per ottenere provvedimenti urgenti o correttivi, ma come meccanismo di vigilanza sulla coerenza dell’azione degli Stati membri con il diritto dell’Unione.

5. La dimensione sistemica delle segnalazioni nel settore dell’immigrazione

Nel contesto del diritto dell’immigrazione, si registrano frequentemente situazioni nelle quali l’accesso alle procedure amministrative risulta difficoltoso. I documenti della Commissione mostrano chiaramente che difficoltà isolate non sono sufficienti per fondare un intervento europeo. È necessario, invece, che emerga un quadro più ampio, composto da dati, segnalazioni ripetute o evidenze documentate che dimostrino una disfunzione generalizzata. In mancanza di tale dimensione sistemica, la competenza primaria resta degli organi nazionali. La procedura di denuncia svolge comunque un ruolo importante, poiché consente di portare all’attenzione della Commissione eventuali criticità emergenti, che potrebbero assumere rilievo nel momento in cui diventino abituali o estese.

6. Conclusioni

La procedura di denuncia alla Commissione europea è uno strumento di garanzia dell’ordinamento dell’Unione, ma non può essere interpretata come un mezzo di tutela immediata della posizione soggettiva del denunciante. La sua operatività è condizionata dalla capacità di dimostrare l’esistenza di violazioni strutturali e non episodiche, e dalla distinzione netta tra il ruolo della Commissione e quello dei giudici nazionali. I documenti pubblicati su Calameo ai link https://www.calameo.com/books/008079775f6fc9e6a4f22 e https://www.calameo.com/books/008079775e80c7d70a2b6 consentono di ricostruire con precisione questa architettura giuridica, offrendo una lettura chiara e completa delle dinamiche procedurali e dei limiti istituzionali che caratterizzano l’azione della Commissione. La conoscenza approfondita di tali meccanismi è essenziale per orientare correttamente qualsiasi strategia difensiva che coinvolga il diritto dell’Unione e i sistemi di tutela multilivello.


Avv. Fabio Loscerbo

Protezione complementare – Nota al Decreto del Tribunale di Firenze, camera di consiglio del 4 dicembre 2025 (R.G. 12055/2024)

TEMA: Protezione complementare – Nota al Decreto del Tribunale di Firenze, camera di consiglio del 4 dicembre 2025 (R.G. 12055/2024)

Abstract
Il decreto del Tribunale di Firenze del 4 dicembre 2025 offre un’ulteriore conferma dell’evoluzione interpretativa della protezione complementare alla luce del quadro normativo successivo al Decreto-Legge 20/2023. La decisione valorizza in modo rigoroso la funzione costituzionale del divieto di refoulement e la necessità di una valutazione comparativa concreta tra integrazione effettiva in Italia e prospettive di vita nel Paese di origine. Il provvedimento è disponibile per la consultazione e il download al seguente link: https://www.calameo.com/books/008079775a54122e54b1f.


1. Il contesto normativo e la cornice intertemporale applicabile

Il Tribunale di Firenze muove da una ricostruzione puntuale del diritto vigente in materia di protezione complementare, ricordando come l’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione, nel suo nucleo essenziale, non sia stato inciso dal Decreto-Legge 20/2023, convertito con modificazioni dalla Legge 50/2023.

Rimangono pertanto pienamente operativi:
– il divieto di respingimento ed espulsione in presenza di rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti;
– gli obblighi derivanti dall’articolo 5, comma 6, TUI;
– il riferimento agli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano.

L’abrogazione dei periodi relativi alla tutela della vita privata e familiare ha riportato il sistema alla logica antecedente alla riforma del 2020, senza espungere tuttavia l’effettiva tutela derivante dagli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione e dall’articolo 8 CEDU.

Sul piano intertemporale, il Tribunale chiarisce che la domanda proposta dopo l’11 marzo 2023 rientra nell’ambito applicativo del nuovo quadro normativo, come previsto dall’articolo 7, secondo comma, del Decreto-Legge 20/2023.

In questo assetto, la protezione complementare continua a fondarsi sui principi elaborati dalla Corte di cassazione nelle pronunce del 2018, 2019 e 2021, che hanno definito il perimetro della comparazione tra radicamento in Italia e condizione nel Paese di origine.


2. La comparazione tra integrazione in Italia e rischio di vulnerabilità in caso di rimpatrio

La decisione attribuisce rilievo centrale alla valutazione comparativa, ritenendo che l’allontanamento del ricorrente comporterebbe un evidente deterioramento delle sue condizioni di vita privata e familiare.

Il percorso di integrazione viene documentato attraverso elementi concreti:

– una continuità lavorativa che culmina nella trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro;
– una stabilità abitativa certificata dalla residenza anagrafica;
– un percorso formativo in lingua italiana;
– una crescente autonomia personale, testimoniata anche dall’iscrizione agli esami per la patente di guida.

Il Tribunale sottolinea che il ritorno in Marocco determinerebbe un significativo scadimento delle condizioni di vita, alla luce dell’indebolimento dei legami familiari e sociali nel Paese di origine.

In ciò si riflette la giurisprudenza delle Sezioni Unite secondo cui la protezione complementare si fonda sulla tutela effettiva dei diritti riconosciuti dagli articoli 2, 3 e 10 della Costituzione e dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.


3. L’obbligo di protezione derivante dagli articoli 5, comma 6, TUI e 8 CEDU

Un passaggio particolarmente rilevante della motivazione afferma che, quando l’allontanamento della persona determinerebbe la violazione di obblighi costituzionali o internazionali, il rilascio del permesso per protezione speciale non è una scelta discrezionale, ma una conseguenza necessaria.

Il Tribunale riconosce che il rimpatrio del ricorrente esporrebbe quest’ultimo a una compromissione “certa e rilevante” dei suoi diritti fondamentali, in assenza di qualunque esigenza di sicurezza nazionale o ordine pubblico che possa prevalere.

Si tratta di un’applicazione chiara dei principi enunciati dalle Sezioni Unite del 2021, secondo cui l’integrazione effettiva raggiunta nel Paese ospitante può incidere in maniera decisiva nella comparazione.


4. Rilievo pratico della decisione e implicazioni per gli operatori del diritto

La decisione del Tribunale di Firenze si inserisce con coerenza nel solco delle più recenti pronunce in materia di protezione complementare.

Essa conferma che:
– la protezione complementare continua a rappresentare una clausola di salvaguardia costituzionale e convenzionale;
– l’amministrazione non può eludere il giudizio comparativo richiesto dagli obblighi costituzionali;
– il percorso di integrazione non è un elemento marginale, ma una componente essenziale nella valutazione della vulnerabilità in caso di rimpatrio.

Il provvedimento, disponibile al link https://www.calameo.com/books/008079775a54122e54b1f, costituisce quindi un utile riferimento per orientare l’attività difensiva e quella amministrativa, in un quadro normativo in cui la protezione complementare mantiene un ruolo determinante.


Avv. Fabio Loscerbo

Benvenuti su "Osservatorio Giuridico dell'Immigrazione"

Benvenuti su "Osservatorio Giuridico dell'Immigrazione" , un blog dedicato all'analisi approfondita delle normative, della...